Lo sport è una lingua universale, capace di parlare a tutti e di abbattere muri che la politica, troppo spesso, alza. Per questo la proposta dell’Associazione Italiana Allenatori di Calcio guidata da Renzo Ulivieri, di chiedere alla FIGC di sollecitare UEFA e FIFA per sospendere Israele dalle competizioni, non solo è sbagliata, ma rischia di trasformare il calcio in un’arma ideologica. Ulivieri non è nuovo a simili derive: dal gesto del dito medio a un hotel di Trump fino alla sua lunga militanza nella sinistra radicale, ha sempre usato la sua posizione per veicolare messaggi politici, dimenticando che lo sport non è un comizio. Presentare come “atto di umanità” una richiesta che colpisce un intero popolo significa scivolare nella stessa logica di chi semplifica un conflitto drammatico e complesso in una narrazione unilaterale.
Si parla della tragedia di Gaza, ma si omette di ricordare il massacro del 7 ottobre 2023, quando i terroristi di Hamas hanno assassinato oltre mille israeliani e rapito circa 250 ostaggi. È questa la radice del problema: non si tratta di difendere Israele o la Palestina, ma di riconoscere che quando lo sport viene politicizzato diventa terreno fertile per odio e antisemitismo, un veleno che in Europa sta tornando a circolare con preoccupante intensità. Escludere Israele dal calcio non porterà la pace, ma finirà per legittimare chi, come Hamas, usa il terrorismo come strumento politico.
D’altra parte, questo è un vizio non nuovo della sinistra: basti pensare agli “appelli” ai giocatori a inginocchiarsi prima delle partite scimmiottando la sinistra radicale americana e Black Lives Matter dopo la morte di George Floyd (per overdose, come emerge dall’autopsia), tutto in funzione “antipolizia”. Non ci risultano infatti analoghe iniziative ogniqualvolta un agente delle Forze dell’Ordine viene ammazzato da un criminale. Oppure pensiamo alle campagne denigratorie contro i calciatori che si sono rifiutati di portare i colori della comunità LGBT, che diverse federazioni hanno arbitrariamente imposto a tutti.
La FIGC, chiamata in causa, dovrà decidere se piegarsi a questa richiesta o ribadire con forza che il calcio deve restare un ponte, non un campo di battaglia. Certo, esistono precedenti di sospensioni – dal Sudafrica dell’apartheid alla Russia post-invasione in Ucraina – ma qui siamo davanti a un conflitto che non si può banalizzare né risolvere con un cartellino rosso simbolico. Gli allenatori hanno il dovere di educare al rispetto, non di alimentare divisioni.
Proprio in vista delle sfide che l’Italia giocherà contro Israele nelle qualificazioni ai Mondiali, il messaggio dovrebbe essere limpido: il calcio deve unire, non dividere. Non può farsi strumento della propaganda di una certa sinistra, che sempre più spesso scambia l’ideologia con la morale e finisce per generare l’effetto opposto a quello dichiarato. La pace non si costruisce con le squalifiche, ma con il dialogo. Lo sport non deve essere arruolato in battaglie ideologiche: è una delle poche arene rimaste in cui popoli diversi possono incontrarsi da avversari sul campo, ma da uomini sul piano dei valori.
Piuttosto che sfruttare la sua posizione per gettare benzina sul fuoco di una situazione già abbastanza esasperata, Renzo Ulivieri farebbe bene a riflettere su se stesso e sul fatto che probabilmente anche per lui è arrivato il momento di appendere falce e martello al chiodo.