Una guerra scatenata da Biden e dai burattinai globalisti

Ieri, alle 22:45 ora italiana, l’Iran ha lanciato un attacco massiccio con missili balistici contro Israele. Le sirene hanno risuonato a Tel Aviv, Gerusalemme e in altre aree strategiche, mentre il sistema Iron Dome si attivava per intercettare le minacce. Il blitz arriva poche ore dopo l’operazione “Leone Nascente”, durante la quale Israele ha colpito oltre 100 obiettivi militari e nucleari sul suolo iraniano, da Natanz a Shiraz, fino alle infrastrutture che alimentano il programma atomico degli ayatollah. 

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di una misura preventiva e necessaria per impedire che l’Iran, ormai a un passo dall’arma nucleare, metta a rischio la sopravvivenza stessa dello Stato ebraico. La risposta di Teheran è stata immediata: una “punizione esemplare”, la chiusura dello spazio aereo e l’innalzamento al massimo livello di mobilitazione delle forze armate. Ma per capire come siamo arrivati fin qui, bisogna tornare indietro. 

A una data che il mondo finge di aver dimenticato: l’11 settembre 2001.

Quel giorno è stato molto più di un attentato. È stato l’inizio dello scontro aperto tra la civiltà occidentale e la dittatura islamista. Alla sacrosanta guerra al terrorismo seguita agli attacchi alle Torri Gemelle, con la caccia a Osama Bin Laden, fece seguito la degenerazione strategica dell’invasione dell’Iraq, basata su una menzogna creata ad arte dal duo Bush-Cheney: il falso dossier sulla bomba atomica di Saddam Hussein. 

Intanto, la jihad si espandeva e gli attentati islamici arrivavano nel cuore dell’Europa: Madrid, Londra, Parigi. Poi, nel 2008, fu la volta di Barack Obama. Gli diedero il Nobel per la Pace ancora prima che facesse qualunque cosa, e i risultati del suo mandato – condotto a braccetto con Hillary Clinton – furono devastanti: le cosiddette “primavere arabe”, il disastro di Bengasi, la Libia trasformata in una polveriera, la creazione dell’ISIS, la firma dello scellerato accordo sul nucleare con l’Iran e, soprattutto, un Medio Oriente destabilizzato e completamente fuori controllo. In otto anni di presidenza, Obama bombardò sette Paesi e lasciò Israele più esposto che mai alla minaccia di Teheran e dei suoi proxy.

Nel 2016, contro tutto e tutti, vinse Donald Trump. E la musica cambiò radicalmente. In quattro anni, il tycoon annientò l’ISIS, annullò l’accordo con l’Iran, firmò gli Accordi di Abramo con le monarchie del Golfo, spostò l’ambasciata americana a Gerusalemme, impose sanzioni economiche e diplomatiche senza precedenti contro Teheran, colpì con decisione i generali delle milizie sciite e – soprattutto – non trascinò l’America in nessuna guerra. Nessuna. Zero. E quando fu il momento di lasciare l’Afghanistan, lo fece concordando un piano progressivo e condizionato.

Poi, nel 2020, tornò al potere l’establishment, la palude di Washington, il deep state. Vinse (?) Joe Biden. Una sciagura annunciata. Sul fronte interno, aprì le frontiere, distrusse l’economia energetica nazionale, legittimò il pensiero woke e le devastazioni di Black Lives Matter. Su quello internazionale, innescò un domino di errori catastrofici. Il ritiro disastroso dall’Afghanistan nell’agosto 2021 fu uno shock globale: una fuga che fu la peggiore umiliazione pubblica della storia degli Stati Uniti d’America. 

Quel fallimento mostrò a nemici come Putin, Xi e Khamenei che l’America era vulnerabile, disorganizzata, priva di leadership. Un’occasione storica. E così, nel 2022, la Russia invase l’Ucraina. Ma anche in quell’occasione Biden si rivelò più preoccupato a sabotare ogni tentativo diplomatico che a evitare la guerra. Un’ostinazione che ha anche altre radici: nel 2014, mentre Biden era vice di Obama, suo figlio Hunter veniva cooptato nella compagnia energetica ucraina Burisma, con un compenso di 83.000 dollari al mese. Una nomina senza alcuna competenza, ma con un cognome pesante. Da lì nacque uno scandalo internazionale. E quando Hunter finì nel mirino della giustizia, papà Joe non esitò: a dicembre 2024, prima di lasciare la Casa Bianca, gli concesse la grazia, gettando nel ridicolo la credibilità americana.

Intanto, nel Medio Oriente si riapriva il vaso di Pandora. Nell’agosto 2023, l’amministrazione Biden autorizzò lo sblocco di sei miliardi di dollari all’Iran in cambio del rilascio di cinque ostaggi americani. Una decisione suicida, ma venduta dai media come un gesto umanitario. Trump, senza mezzi termini, lo definì «un patto mortale», disse che quei fondi avrebbero finanziato il terrorismo e il programma nucleare degli ayatollah. 

Fu attaccato, deriso, accusato di complottismo. Ma ancora una volta aveva ragione. Perché 51 giorni dopo, il 7 ottobre 2023, Hamas lanciò il più sanguinoso attacco terroristico contro Israele dal 1973. E oggi, mentre i missili dell’Iran piovono su Tel Aviv, è ormai chiaro che l’Occidente sta pagando il conto di anni di cecità, debolezza e tradimento.

In questo contesto, i media cercano ancora una volta di ribaltare la verità, incolpando Trump, come se fosse lui ad aver destabilizzato il Medio Oriente. Eppure, durante il suo mandato, non c’è stata una sola escalation. Israele era più forte, l’Iran era isolato, la minaccia di Hamas era sotto controllo. È stato Biden, con la sua agenda ideologica e la sua sudditanza ai burattinai globalisti, a riaccendere il fuoco. Ha finanziato indirettamente Teheran, ha ignorato l’espansionismo russo e ha lasciato che l’immigrazione illegale trasformasse l’Occidente in un campo aperto.

Oggi, Israele è in stato di allerta. Lo spazio aereo iraniano è chiuso. L’AIEA monitora i siti colpiti. Si parla di perdite pesanti tra i vertici militari di Teheran. Il prezzo del petrolio ha superato i 90 dollari al barile. Hezbollah e gli Houthi sono pronti ad aprire nuovi fronti. Il rischio di una guerra regionale – o addirittura mondiale – è concreto. E in tutto questo, Cina e Russia osservano e aspettano il momento giusto per incassare.

I bombardamenti dell’Iran su Israele – su obiettivi civili, non militari – non sono un incidente. Sono il punto di non ritorno di una lunga catena di errori, di decisioni scellerate e di un progetto politico preciso: quello del globalismo che vuole distruggere l’identità, la sovranità e la libertà dell’Occidente.

Ma la verità, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Non è Trump il problema. È la sua assenza a essere stata letale. Ecco perché il suo ritorno alla Casa Bianca rappresenta l’unica speranza di salvezza per il mondo libero. Con Trump si difende Israele. Con Trump si difende l’America. Con Trump si difende l’Occidente. E oggi, più che mai, non possiamo permetterci di perdere, perché significherebbe morire.

Resta aggiornato

Invalid email address
Promettiamo di non inviarvi spam. È possibile annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.
Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.