Durante il G20 di New Delhi appena conclusosi, fra la non sempre facile ricerca di un equilibrio globale capace di stabilizzare i rapporti di Stati Uniti ed Europa con Cina, India e Brasile, i cosiddetti emergenti, in merito, per esempio, alla guerra in Ucraina e anche ad altri dossier internazionali, si è tenuto un importante incontro bilaterale tra la premier Giorgia Meloni e il suo omologo cinese Li Qiang, (il presidente Xi Jinping era assente dal G20 presieduto dall’India). Il faccia a faccia del Presidente del Consiglio italiano con il premier della Repubblica popolare cinese si è rivelato molto significativo e ha destato l’attenzione dei media, non solo nostrani, perché in tale incontro l’Italia ha avuto modo di comunicare alla Cina la propria intenzione di abbandonare il progetto delineato dal Dragone e identificato a livello giornalistico come nuova Via della Seta, (in inglese, Belt and Road Initiative).
La Via della Seta consiste in una iniziativa strategica di Pechino che punta a potenziare i collegamenti commerciali della Cina con i Paesi euroasiatici, via terra e via mare. L’interesse cinese è o meglio, era focalizzato sull’utilizzo dei più importanti porti italiani, anzitutto Palermo e Trieste, (nella gestione del porto friulano vi è già una partecipazione di COSCO, compagnia statale cinese di spedizioni e logistica), ma anche Venezia e Genova. Tale obiettivo della Via della Seta aveva generato parecchi timori in Italia perché non si sarebbe trattato solo di agevolare una maggiore circolazione in Europa delle merci Made in China, ma il nostro Paese avrebbe rischiato di cedere, pericolosamente e ingenuamente, buona parte della propria sovranità sui porti nazionali alla Repubblica popolare cinese.
La Cina avrebbe utilizzato come proprie, trasformandole quasi in exclavi, le infrastrutture portuali italiane e si sa, quando una cosa ti appartiene la difendi con forme organizzate di protezione e con le armi, quindi, ci saremmo potuti svegliare un giorno con i maggiori porti della Penisola presidiati da forze di sicurezza e navi militari cinesi. La premier Giorgia Meloni e il Governo italiano hanno valutato appieno l’entità della posta in gioco e dei rischi, e hanno impedito, appena in tempo, che l’Italia si incamminasse verso una strada pericolosa. Durante il bilaterale con il suo omologo cinese Li Qiang, il Presidente del Consiglio ha riparato uno dei tanti danni provocati dalle imprudenti politiche di Giuseppe Conte, il quale, al tempo del suo primo governo, fu artefice della adesione italiana alla Via della Seta promossa da Pechino, (unico premier fra i suoi colleghi del G7, si badi bene, ad assumere una decisione simile).
Quasi sicuramente, non si trattò solo di imprudenza o ingenuità da parte di Conte, bensì la scelta di abbracciare la Belt and Road Initiative disegnata dal regime di Xi Jinping fu perlopiù consapevole. Giuseppe Conte, sia in qualità di numero uno di Palazzo Chigi che come leader del Movimento 5 Stelle, ha sempre dimostrato di avere, per così dire, una sorta di occhio di riguardo per tutto ciò che si contrappone all’Occidente, dalla Cina comunista alla Russia di Vladimir Putin e sino ad arrivare all’Iran degli ayatollah, senza sforzarsi neppure di mascherare tale sentimento.
L’ex avvocato del popolo di Volturara Appula si ritrova costantemente schierato in maniera diversa rispetto alle democrazie occidentali, come sta accadendo ora in merito al supporto da fornire all’Ucraina, che deve proseguire perlomeno sino a quando la Russia non cesserà la propria aggressione militare ai danni di Kiev. Tornando alla Cina, è evidente che l’Occidente tutto, dagli Usa all’Europa, non possa ignorarne il peso globale, infatti, per esempio, l’Italia a guida Meloni si allontana dalle insidie della Via della Seta e preferisce un normale e più sicuro partenariato economico con Pechino, ma un conto è la realpolitik, già emersa ai tempi di Richard Nixon e Henry Kissinger, un altro, è la svendita di porzioni di sovranità a un gigante caratterizzato da poche luci e molte ombre.