Viterbo, lo Stato vince: l’attentato a Santa Rosa non passerà alla storia

Il Presidente Meloni: «Congratulazioni alle Forze dell’Ordine e al Ministro dell’Interno Piantedosi per il pronto intervento che ha portato all’arresto di due cittadini turchi armati a Viterbo, poche ore prima della festa della Macchina di Santa Rosa. Un’operazione decisiva che ha permesso di celebrare in sicurezza un evento unico al mondo, riconosciuto dall’Unesco patrimonio immateriale dell’Umanità e rappresentativo di una tradizione secolare profondamente sentita dai viterbesi e da tantissimi italiani».

La sera del 3 settembre, Viterbo avrebbe potuto scrivere una delle pagine più nere della sua storia. La Macchina di Santa Rosa, patrimonio immateriale dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, simbolo religioso e civile insieme, si è sollevata come ogni anno sulle spalle dei facchini tra due ali di folla — 40 mila persone, strette nelle vie della città medievale. Ma quell’attimo di devozione collettiva e di orgoglio popolare era minacciato da un commando armato pronto a trasformarlo in incubo.

Due cittadini turchi, arrestati poche ore prima dalla Digos in un bed and breakfast a pochi passi dal percorso, avevano con sé un arsenale sufficiente a scatenare il caos: una mitragliatrice, pistole cariche, decine di munizioni. Erano senza bagagli, chiusi in una stanza anonima, in attesa. Bastava un gesto, un colpo, per trasformare la festa in strage. Non è accaduto. L’intuizione di un albergatore, la rapidità delle forze dell’ordine, la regia invisibile di un sistema di sicurezza che ha funzionato come un orologio hanno impedito l’attacco.

Il trasporto della Macchina si è svolto ugualmente, ma con una differenza mai vista: le luci della città, che da secoli si spengono per far risplendere la torre illuminata, sono rimaste accese. Una rottura della tradizione che ha fatto storcere il naso a qualcuno, ma che ha salvato vite umane. Perché quella sera Viterbo era sotto tiro. E lo Stato non ha tremato.

Lo Stato sventa l’attentato

Il piano criminale si è infranto contro la capacità di prevenzione. L’allarme parte da un dettaglio apparentemente banale: due uomini senza bagagli, comportamento sospetto, un affittacamere che non si fida. Da lì scatta l’operazione. Nel pomeriggio, mentre la città si preparava alla processione, la Digos entra in azione: blitz nell’alloggio, armi sequestrate, sospetti fermati.

Le istituzioni decidono allora una misura senza precedenti: la processione non si spegnerà nel buio. Viterbo resta illuminata. Cecchini sui tetti, NOCS mimetizzati tra la folla, unità cinofile a presidiare gli accessi. Tutto avviene senza creare panico, senza annunciare il pericolo. Una regia silenziosa, che protegge e al tempo stesso lascia che la città viva il suo rito.

È qui che si misura la forza dello Stato. Non nel clamore delle dichiarazioni, ma nella capacità di prevenire e neutralizzare. La differenza tra una cronaca di strage e una cronaca di salvezza sta in un’ora di lavoro ben fatto, in un dispositivo di sicurezza che ha saputo modulare tradizione e necessità. Viterbo ha vissuto la paura senza saperlo, e l’ha superata perché lo Stato ha fatto il suo mestiere.

A motivare quell’arsenale non c’era la follia di due lupi solitari. Gli inquirenti seguono una pista precisa: la criminalità turca. E soprattutto la rete di Barış Boyun, il boss nato a Malatya nel 1984, leader di una nuova mafia transnazionale che unisce la brutalità delle bande giovanili ai traffici globali di droga e armi.

Boyun è stato arrestato proprio in Italia, a Viterbo, nel maggio 2024, nell’ambito di un’operazione che ha coinvolto decine di sodali tra Italia, Svizzera e Germania. Le accuse non lasciano dubbi: omicidi, traffico internazionale di stupefacenti, porto e detenzione di armi da guerra, terrorismo, immigrazione clandestina. La sua estradizione in Turchia è stata più volte respinta dalla magistratura italiana per mancanza di garanzie sul rispetto dei diritti fondamentali.

La sua rete non è rimasta inattiva. Indagini recenti hanno svelato la presenza di cellule a Viterbo, con bed and breakfast trasformati in basi logistiche e depositi d’armi. Nel 2025 un altro sodale, Ismail Atiz, è stato arrestato con accuse di riciclaggio ed estorsione. Gli investigatori non escludono legami con il fondamentalismo islamico dell’Isis-Khorasan, la branca jihadista nata dopo la caduta del Califfato.

Il quadro che emerge è quello di una mafia ibrida, capace di mescolare interessi criminali e azioni di destabilizzazione. Colpire un evento simbolico come la Macchina di Santa Rosa non significa solo incassare denaro o esercitare violenza: significa ottenere visibilità globale, terrorizzare una comunità e misurare la forza dello Stato. È un messaggio politico, oltre che criminale.

Santa Rosa, simbolo e bersaglio

Per capire la portata del rischio, bisogna comprendere cosa rappresenta Santa Rosa. Non è solo una festa locale: è un rito che attraversa i secoli, un patrimonio identitario che unisce religione, civiltà e comunità. Una torre di 30 metri, portata a spalla da oltre cento facchini, che attraversa il cuore di Viterbo illuminata da centinaia di luci. Un evento che fonde fede, orgoglio civico e tradizione popolare.

Colpire Santa Rosa significa colpire l’anima stessa di Viterbo, e con essa una parte dell’Italia che difende le proprie radici. È qui che si misura la gravità dell’attacco: non solo le possibili vittime, ma la ferita simbolica che avrebbe inflitto. Ecco perché la risposta dello Stato non è stata solo tecnica, ma politica.

Giorgia Meloni lo ha espresso con parole chiare: «Congratulazioni alle Forze dell’Ordine e al Ministro dell’Interno Piantedosi per il pronto intervento che ha portato all’arresto di due cittadini turchi armati a Viterbo, poche ore prima della festa della Macchina di Santa Rosa. Un’operazione decisiva che ha permesso di celebrare in sicurezza un evento unico al mondo, riconosciuto dall’Unesco patrimonio immateriale dell’Umanità e rappresentativo di una tradizione secolare profondamente sentita dai viterbesi e da tantissimi italiani».

Proteggere Santa Rosa ha significato proteggere un’identità collettiva. Lo Stato ha dimostrato che sa difendere la memoria e la tradizione senza piegarsi alla minaccia.

L’attentato sventato a Viterbo non riguarda solo la cronaca nera. È un tassello di una partita geopolitica più ampia. La mafia turca di Boyun si muove su scala transnazionale: un piede a Istanbul, un altro nei Balcani, ramificazioni in Germania, Svizzera, Italia. Una rete che traffica armi e droga, che usa i migranti come pedine, che cerca visibilità attraverso azioni eclatanti.

La lezione è che il crimine non è più solo business. L’ibridazione con logiche terroristiche produce un nuovo tipo di minaccia: mafie che non cercano solo profitto, ma anche destabilizzazione. È il cosiddetto “terrore a bassa intensità”, capace di colpire obiettivi simbolici per generare caos mediatico.

L’Italia ha risposto con strumenti rodati: intelligence, cooperazione internazionale, uso sapiente delle forze speciali. Ma il messaggio è più ampio. Per affrontare queste reti serve una strategia che vada oltre il singolo arresto: colpire i patrimoni, chiudere le rotte logistiche, rafforzare le alleanze con i Paesi partner.

Il governo Meloni ha più volte insistito sul concetto di sicurezza come bene comune, come fondamento per la libertà dei cittadini e per la sovranità nazionale. A Viterbo questa linea ha trovato una conferma concreta. La protezione di Santa Rosa non è solo un atto locale: è un messaggio politico e internazionale. L’Italia non è terreno di conquista per mafie globali.

La cronaca di Viterbo si sarebbe potuta scrivere come la storia di una strage. È invece la storia di un successo. La Macchina ha sfilato, i viterbesi hanno cantato, i facchini hanno compiuto il loro rito. Due uomini armati sono finiti in manette, e il terrore è stato fermato.

La differenza la fa lo Stato. Un Paese che conosce le mafie da decenni e che ha saputo trasformare quella ferita in capacità di reazione. La notte del 3 settembre sarà ricordata non per ciò che poteva accadere, ma per ciò che non è accaduto. E questo grazie alla forza delle istituzioni, alla lucidità di chi ha preso decisioni impopolari, al coraggio silenzioso delle forze dell’ordine.

Viterbo non sarà sinonimo di paura, ma di resistenza. Santa Rosa ha continuato a salire, e l’attentato non passerà alla storia. È la dimostrazione che l’Italia, quando serve, sa difendere i propri simboli e il proprio popolo.

Chi è Barış Boyun

  • Nato a Malatya nel 1984.
  • Leader della cosiddetta Daltonlar Çetesi, specializzata in omicidi in stile “narcos” con motociclette.
  • Accusato di almeno 10 omicidi e di traffici internazionali di droga e armi.
  • Arrestato a Viterbo il 22 maggio 2024 in una maxi-operazione congiunta italo-turca.
  • Estradizione in Turchia più volte negata dai giudici italiani per rischio di trattamenti inumani nelle carceri di Ankara.
  • Considerato uno dei boss emergenti più pericolosi della mafia turca contemporanea.

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Leo Valerio Paggi
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Leo Valerio Paggi per La Voce del Patriota.

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