Volevano processare Salvini, ma il giudice convoca Conte, Di Maio e Toninelli.

Rocambolescamente a Catania, durante l’udienza preliminare per il processo a Salvini, accade l’imponderabile e sembra quasi che il dialogo tra le parti processuali sia stato scritto da Samuel Beckett.

L’accusa chiede addirittura il non luogo a procedere, ribadendo in realtà la posizione assunta mesi fa, quando il tribunale dei ministri invece decise di mandare l’ex ministro a processo. La difesa naturalmente chiede in via principale il non luogo a procedere e in subordine di sentire la Lamorgese, unicamente per far emergere che la procedura seguita all’epoca da Salvini fosse legittima e conforme al diritto, oltre che tutt’ora in vigore. Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dopo essersi un po’ attardato in camera di Consiglio, ha chiesto invece non solo che venisse sentita la Lamorgese, ma ha chiamato come persone informate dei fatti anche Conte, Di Maio e Toninelli… gli ex colleghi di governo dell’imputato Salvini. Il giudice vuole dunque accettare se il divieto di sbarco dalla Gregoretti all’epoca fu un atto autonomo del ministro dell’interno o se invece fu un atto condiviso con il presidente del consiglio, con i ministri Di Maio e Toninelli e dunque assunto collegialmente.

Ed è una bella gatta da pelare perché se Salvini aveva tenuto fuori dalla tenzone giudiziaria i suoi ex amici, non avendo interesse ad una chiamata in correità, il tribunale ha invece deciso di approfondire. E i testimoni, a differenza degli imputati, hanno l’obbligo di dire la verità, che non può essere la “verità” che si propala a mezzo stampa o sulle clip social, ma una verità che deve trovare riscontro oggettivo nei documenti, nei fatti e nelle concordanza tra testimonianze diverse.

Coloro che all’alba della caduta del governo giallo verde avevano impiegato cinque minuti ad abbandonare Salvini, che in questo ultimo anno hanno caldeggiato la celebrazione del processo, affrettandosi a scaricare ogni responsabilità sulle spalle del leader della lega, e che hanno festeggiato con lingue di Menelik, musica ricchi premi e cotillons il suo rinvio a giudizio, oggi sono chiamati dalla giustizia a riferire sulle reali posizioni mantenute all’epoca dell’infausta alleanza.

E nessuno vorrebbe essere nella giacca, invero già un po’ stretta, di Toninelli, che sino al mattino dell’udienza si sperticava in commenti irridenti nei confronti di tutti coloro che hanno manifestato nelle strade e nelle piazze di Catania a difesa della sovranità e della separazione dei poteri.
Tra questi c’era la Meloni, accompagnata da una delegazione del partito e da un folto numero di militanti, a difesa coerente dell’uomo, dell’alleato, ma soprattutto di un principio sacrosanto, per cui i ministri della Repubblica, espressione della maggioranza degli italiani, devono poter perseguire il mandato conferito dal popolo, devono poter difendere le leggi, la patria, i confini e non possono essere processati per questo.

E così il buon Toninelli ha poco da deridere chi oggi ha manifestato accanto a Salvini, perché domani dovrà rendere conto al Tribunale di tutto quello che sapeva e che faceva mentre era collega di governo di Salvini e se è facile manipolare la piattaforma Rousseau, se è semplice sparare a zero e ciurlare nel manico sui social e sui giornali, quando ci si siede di fronte al Tribunale, ci si impegna così “consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.

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