Il festival di Sanremo, di cui si sta svolgendo in questi giorni la settantacinquesima edizione, rappresenta da sempre un tema di cui si parla tanto e a più livelli. Inizialmente era un momento di spettacolo esclusivamente musicale, in cui le famiglie si riunivano nei salotti, prima intorno alla radio e poi davanti alla televisione, per ascoltare e commentare le canzoni dei vari artisti in gara. Poi, progressivamente ed in parallelo con i cambiamenti della società, è divenuto sempre più una vetrina non soltanto per i musicisti chiamati ad esibirsi, ma anche palcoscenico per personaggi di vario tipo chiamati a manifestare idee e pensieri che poco avevano a che vedere con le sette note.
E anche i brani proposti a dir la verità, sono pian piano diventati più manifesti politici e/o rivendicazioni di vario genere che pezzi artisticamente rilevanti. L’idea di alcuni direttori artistici che si sono susseguiti, soprattutto negli ultimi anni, era infatti quella di legare la kermesse alla contemporaneità e all’evoluzione sociale e musicale, spesso e volentieri con buona pace della qualità e anche del concreto legame con la vita della gente.
La scelta su chi portare all’Ariston, in altre parole, era determinata più dal personaggio e da ciò che lo stesso rappresentava che dall’effettivo valore della canzone e bravura dell’interprete. E questo ha contribuito a far calare non tanto l’attenzione e l’audience, che pure si sono più o meno mantenuti a buoni livelli, quanto l’effettiva partecipazione anche emotiva degli italiani, sempre meno coinvolti in quello che in tanti (e non a torto) ritenevano l’ennesimo fastidioso panegirico del “politicamente corretto”.
Questa edizione però sembra stia andando controcorrente e la dimostrazione che il neo-direttore artistico e conduttore Carlo Conti ha colpito nel segno è duplice: da un lato ci sono i commenti, a volte un po’ scomposti, di quanti a sinistra parlano di Festival reazionario, austero, noioso, addirittura incarnante “la stagnazione culturale di un Paese fermo”. Dall’altro, a smentirli, l’altissima audience registrata nelle prime serate (intorno al 65% di share), che pare addirittura essere la migliore di sempre. Alla gente dunque questo Sanremo sta piacendo. E non poco.
Le ragioni principali di questo successo sono secondo noi due: una è la misura, cioè il fare spettacolo senza fastidiosi eccessi e/o concessioni sbrodolate all’ideologia mainstream e all’attualità. Il che non vuol dire che non ci siano artisti ribelli e fuori dagli schemi, né momenti dedicati a quanto sta accadendo nel mondo (mirabile, in questo senso, l’esibizione per la pace in Ucraina di due bravissime cantanti, una israeliana e una palestinese, che si sono esibite in “Imagine”; e anche il messaggio contro la violenza sulle donne di due ragazze in gara per le Nuove Proposte). Semplicemente mancano una certa triviale grossolanità vista in passato e la sfacciataggine di voler a tutti i costi imporre certi messaggi.
L’alto motivo, il più importante, del grande seguito di questo Sanremo è l’aver riportato all’Ariston canzoni che parlano di valori, emozioni e sentimenti che gli italiani considerano fondamentali. Qualche esempio? “L’albero delle noci”, delicata ballata che Brunori Sas ha dedicato alla figlia; “Viva la vita” di Francesco Gabbani, un inno alla vita e un invito a viverla sempre con pienezza; “Quando sarai piccola”, la poesia in musica di Simone Cristicchi dedicata alla malattia della sua mamma e al rapporto figli-genitori quando questi ultimi diventano anziani, che ha commosso tutti. E non è un caso il fatto che, come ha detto lo stesso Cristicchi, il suo brano sia stato scartato quando, cinque anni fa, venne proposto all’allora direttore artistico.
Dunque, finalmente, all’Ariston tornano in primo piano le belle canzoni. E i bravi interpreti. L’augurio, per tutti noi, è che si continui su questa linea. Ne va della godibilità della manifestazione canora che è anche, dato il seguito che ha oltreconfine, un biglietto da visita per lo stato dell’arte della musica nel nostro Paese.