Si attendeva la data del 2 agosto 2019 come fosse la data dell’apocalisse per l’associazionismo e invece è arrivato settembre e per disgrazia o per fortuna, siamo ancora in attesa di Godot.
Le associazioni avrebbero infatti dovuto adeguare i propri statuti alle nuove norme previste dalla Riforma del Terzo Settore entro la data del 2 agosto, ma già dal giugno di quest’anno, con l’approvazione in commissione di un emendamento al decreto crescita, era arrivata la certezza che la linea maginot fissata dal correttivo al codice nel dicembre 2018, sarebbe stata nuovamente spostata.
Facciamo un passo indietro.
L’ormai famigerata riforma del terzo settore prende l’abbrivio nel 2016, durante il Governo Renzi, con la legge delega che dava mandato al Governo di adottare uno o più decreti legislativi volti a sostenere la “libera iniziativa avente finalità solidaristiche”.
Nel 2017, durante il governo Gentiloni, vede luce tra i vari il d.lgs 117/2017, che regolamenta tutti gli enti del terzo settore, accorpando in un unico testo normativo la disciplina delle associazioni di volontariato, di promozione sociale, le associazioni culturali, le fondazioni e le onlus in genere.
Obiettivo della riforma era la semplificazione, con l’abrogazione delle norme preesistenti e l’istituzione di un unico registro unico nazionale (RUNTS) per tutti i soggetti operanti nell’ambito del terzo settore, suddiviso in sezioni a seconda della tipologia di ente e che andasse a sostituire i registri precedentemente esistenti.
L’iscrizione al RUNTS avrebbe dato ingresso ai benefici fiscali riconnessi alla natura non lucrativa e solidaristica degli enti iscritti.
Naturalmente, il mondo delle idee risulta sempre deformato rispetto alla realtà delle cose e l’intento apparentemente meritorio di compendiare e razionalizzare una normazione stratificata e a tratti confusa mal celava obiettivi a parere di chi scrive meno nobili.
Cosa impone a grandi linee la nuova disciplina delle associazioni?
Ebbene, come già detto, il codice del terzo settore fa in buona sostanza un’operazione di restyling della nomenclatura dell’associazionismo, definendo tutti i soggetti operanti nel comparto “Enti del Terzo Settore”, dà quindi una definizione di base ed elenca quei soggetti che tradizionalmente nel nostro ordinamento hanno da sempre svolto attività solidaristiche e senza scopo di lucro.
Con riferimento alle più rilevanti novità introdotte dalla disciplina, possiamo senza ombra di dubbio annoverare l’istituzione del registro unico, con la soppressione di tutti i registri precedentemente esistenti; l’introduzione del divieto di “coabitazione” di un’associazione in più registri (escludendo così di fatto le associazioni che si occupano di sport dilettantistico, atteso il divieto di contestuale iscrizione al registro del CONI); la sottoposizione delle associazioni al controllo del Ministero del Lavoro; l’introduzione di vincoli in materia di assunzioni del personale, del rispetto dei minimi salariali previsti dai CCNL; infine la redazione e relativa pubblicazione dei bilanci sociali.
Ebbene, dall’entrata in vigore della norma, la riforma stenta a partire ed ha visto, ancora senza applicazione piena, già un correttivo nel 2018, miriadi di circolari interpretative del Ministero del Lavoro e dell’Agenzia delle Entrate, oltre a correzioni spot per mezzo di emendamenti inseriti nei più disparati provvedimenti.
Gli statuti potranno, pare, essere adeguati senza preclusioni fino al giugno 2020 e il RUNTS ancora non vede luce.
Disperatamente alla ricerca di un modo per fermare il tempo, le associazioni vivono questo momento con un misto di febbricitante preoccupazione e speranza che tutto si risolva in una bolla di sapone.
Perchè?
Il mondo dell’associazionismo italiano non è in grado di assorbire i dettami di una norma che si sta rivelando inadeguata alla realtà.
Si consideri che il mondo del terzo settore è negli anni diventato un comparto estremamente appetibile. Con l’aumento infatti del fabbisogno sociale, lo Stato e gli enti locali si sono via via spogliati delle competenze per l’erogazione di tutta una serie di servizi sociali che sono stati “esternalizzati” ai soggetti di prossimità, quindi alle piccole associazioni locali, alle cooperative ed alle piccole fondazioni.
Il mondo del terzo settore in Italia, in buona sostanza costituisce il nerbo dei servizi di rilevanza pubblica e sociale, sorreggendo l’architrave dei fabbisogni delle miriadi di piccole e piccolissime comunità.
Basti pensare che sui circa 8000 comuni italiani, ben 5.500 sono comuni sotto i 5000 abitanti, e che anche in questi piccoli comuni si gestiscono biblioteche, asili nido o sportelli di informazione e di segretariato sociale per mezzo dell’operato di associazioni e cooperative che hanno una spiccatissima connotazione territoriale.
Ebbene, costringere tutte queste migliaia di soggetti ad adeguarsi a modelli e regole pensate per le grandi aggregazioni nazionali sta ponendo in seria difficoltà tutto il comparto.
Quale il verosimile scenario?
Molte piccole associazioni saranno costrette a rinunciare allo svolgimento delle proprie attività, perché non potranno assumersi i nuovi oneri di gestione che vengono richiesti.
Saranno sostituite dalle grandi aggregazioni associative nazionali (pochissime in Italia) che riempiranno gli spazi di “mercato” giudicati fruttuosi, lasciando vuoti e senza copertura quegli spazi eccessivamente onerosi e poco redditizi.
Ed ecco che tutto si fa più chiaro.
Gli intenti che mal celava la riforma, a parere di chi scrive, rispondono ad una logica oligopolistica e di cartello che tuttavia annienta le individualità territoriali a favore di un modello unico standardizzato; un modello che annichilisce le comunità territoriali, che mortifica le realtà locali e che evolve in senso verticistico.
I singulti con cui la riforma sta vedendo la luce dimostrano quanto questa sia distante dalle necessità del settore e come male si adegui allo status quo.
Questo accade perché si tenta, per affermare una visione del mondo, di piegare la realtà alle norme e non l’inverso. Ebbene, un brocardo latino recitava “ex facto oritur jus”, ossia “dal fatto nasce il diritto”, ma non dovrebbe essere necessario scomodare il diritto romano per comprendere che se un processo di massificazione si inceppa e incontra ostacoli è perché la realtà che gli resiste è viva, vegeta e non ha intenzione di morire. L’associazionismo italiano resiste e troverà chi si prenderà cura di tutto ciò che di bello e buono fa ed ha fatto per la società.