Attentato a Trump, ecco che succede se si demonizza l’avversario politico

L’attentato alla vita di Donald Trump avvenuto questa notte ha acceso i riflettori dei media e dell’opinione pubblica su un fatto non poco rilevante: il condizionamento del dibattito politico da parte degli haters, incitatori d’odio per professione. Politici, giornalisti, pensatori, personaggi pubblici, anche di un certo rilievo, che da mesi e mesi pronunciano parole tutt’altro che di pacificazione verso l‘avversario politico, che diventa nemico. Una carrellata di immagini e di dichiarazioni, tutte che vanno verso un unico obiettivo: demonizzare l’avversario, in una crescente esasperazione di toni che affossa la democrazia.

https://twitter.com/DrEliDavid/status/1812330719743488169?t=EbgA3e5TLbHYhR2Rmz7NDQ&s=08

Sdoganare la violenza, trasformare l’avversario politico in un nemico da abbattere, mettere a disposizione tutti i mezzi per sconfiggerlo. Alcuni legali, altri un po’ meno. A partire, ad esempio, dalle proteste in piazza, che sono più che legali: prendendo come riferimento la Francia, dopo il primo turno della tornata elettorale che aveva visto il Rassemblement National ottenere il 33% dei consensi totali, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare. Protestare contro l’esito democratico di una tornata elettorale. Legittimo ma insensato, e pure irrispettoso verso chi ha votato. Quasi un’intimidazione verso il popolo di ogni Nazione: se il nemico sale al potere, noi saremo pronti a sovvertirlo. Anche se poi, magari, la reazione si fermerà e non avrà seguito, il vero obiettivo intanto è stato raggiunto: destabilizzare l’opinione pubblica, minacciare le maggioranze che vorrebbero votare un certo partito, innestare quantomeno il dubbio che qualcosa di male, se il nemico va al potere, succederà.

E allora ecco la prima conseguenza: passa così il messaggio che bisogna per forza di cose fermarlo, con ogni mezzo. Con le semplici e regolari proteste di piazza, ma anche con altri mezzi, quali l’incitamento alla lotta armata, ad esempio. Oppure invitando i propri uomini a opporsi anche “con i corpi” alle proposte di una maggioranza democraticamente eletta. O ancora strizzando l’occhio a chi muove violenze contro le autorità e contro le forze dell’ordine, a chi brucia nelle piazze i fantocci di leader democraticamente eletti, non condannando mai esplicitamente certe azioni. Talvolta per mero tornaconto elettorale: sono tutti voti che vanno contro la democrazia, ma pur sempre voti.

A tutto ciò, a tutta quella parte politica a cui piace soffiare sulla stabilità di un Paese, a cui non importa tanto dell’ordine pubblico e della fruizione degli organi democratici; a tutto ciò dunque si aggiungano le reazioni di personaggi dotati di indubbio potere mediatico. Da influencer a grandi attori, amici di un certo sistema che si uniscono molto volentieri, con messaggi provocatori, alla lotta contro libere elezioni, con la volontà di influenzare l’opinione pubblica, con la volontà di voler creare un mostro che in realtà non esiste, ma che va ugualmente combattuto. Tutta una narrazione, dunque, che porta a un unico risultato: l’esasperazione dei toni. Perché dall’incitare la folla a scendere in piazza per protestare contro il risultato di una tornata elettorale, all’incitare le masse a ribellarsi al presunto regime (che intanto ha ottenuto il favore della maggioranza del Paese), è un passo tanto breve quanto pericoloso. Dal proclamare in diretta tv che è difficile resistere alla tentazione di prenderlo per il collo o di dargli un cazzotto in faccia, a mirare alla sua testa, il passo è stato evidentemente breve. E occhio, perché dall’America partono tutte le mode che l’Occidente si trova a seguire. Anche le più tristi.

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