“Attentato a Trump? Un errore dei servizi”: l’intervista a Valeria Castellani e il ricordo di Fabrizio Quattrocchi

Valeria Castellani, 50 anni, oggi security manager per un importante brand nel mondo del lusso, ha vissuto esperienze straordinarie e drammatiche come operatrice umanitaria e contractor in Afghanistan e Iraq nei primi anni 2000. Nel suo libro “Non chiamatemi mercenaria”, racconta la sua storia oggettivamente straordinaria, verità scomode e dettagli inediti sul rapimento di Fabrizio Quattrocchi.

Valeria, come è iniziato il suo viaggio?

Dopo la laurea in legge ho lavorato all’estero, prima in Repubblica Ceca e poi in Russia, coinvolta in un progetto petrolifero a Krasnodar. Tuttavia, l’11 settembre 2001 ha cambiato tutto. Il progetto russo si è fermato e io mi sono trovata a chiedermi cosa potessi fare. Avevo l’idea di poter contribuire concretamente e aiutare gli altri.

Cosa l’ha spinta verso le ONG?

Conoscevo persone nelle ONG e pensavo di poter fare la differenza. Nel giugno 2002 sono partita per Kabul come assistente del capo missione di Intersos. Poco dopo, mi hanno chiesto di dare il mio contributo a Kandahar nell’ambito dell’apertura di un campo per sfollati. Lì ho conosciuto una realtà dura e spietata, fatta di polvere, fame e sorrisi dei bambini. Era un’esperienza che mi stava dando qualcosa di prezioso: la voglia di vivere e la consapevolezza della mia innata necessità di essere utile agli altri.

Come ha vissuto l’impatto con la realtà di Kandahar?

La città era polvere e deserto. C’era fame vera, pochissimi rifornimenti. Ma ricordo anche i sorrisi dei bambini nei campi rifugiati. Lì ho incontrato Paolo Simeone, un ex lagunare e Legione straniera, che mi ha insegnato a sparare, non per colpire gli altri, ma per difendermi in caso di rapimento. Ho vissuto momenti di grande difficoltà, come quando dovevo affrontare la diffidenza delle autorità locali, soprattutto in quanto donna. La mia presenza veniva percepita come una minaccia. Allo stesso tempo porto nel cuore i momenti di condivisione con le operatrici afgane che lavoravano in team insieme a me: mi hanno consentito di entrare nelle loro vite e si sono aperte: sono stati momenti unici.

Come è avvenuto il passaggio dall’Afghanistan all’Iraq?

Ho lasciato Kandahar disgustata dalla doppia morale che vedevo. Quando sono arrivata in Iraq nell’estate 2003 con ‘Un ponte per…’, mi occupavo di sanificazione dell’acqua a Bassora. Paolo ha visto il potenziale nel settore della sicurezza privata, e così è iniziata la nostra avventura come contractor. Ci siamo inseriti in un contesto in cui la protezione di civili e infrastrutture era cruciale, e il nostro compito era garantire la sicurezza in un ambiente sempre più pericoloso.

Può raccontarci del caso Quattrocchi?

Fabrizio Quattrocchi era uno di noi, un uomo con un coraggio straordinario. Proteggevamo civili in condizioni di rischio e lui era sempre in prima linea. Nel fatidico 12 aprile 2004, Fabrizio stava accompagnando tre nuovi arrivati in Giordania quando furono rapiti. Con un coraggio incredibile nel momento in cui lo misero davanti alla buca dove lo avrebbero sotterrato, disse ai rapitori: ‘Vi faccio vedere come muore un italiano’. La sua morte mi ha segnata profondamente. Fabrizio era un uomo di poche parole con una forza d’animo eccezionale. La sua figura è diventata simbolo di dignità e onore.

Come ha reagito alla sua morte?

È stato devastante. Non ho dormito per mesi e ho subito accuse infondate di reclutamento di personale armato. La morte di Fabrizio è stata un colpo durissimo, un evento che mi ha fatto riflettere profondamente sul valore della vita e sul sacrificio. L’ho saputo prima di tutti da un addetto della nostra ambasciata, ed è stato un momento di incredibile dolore. Tuttavia the show must go on e non c’è stato nemmeno il tempo per il lutto, la vita andava freneticamente avanti e non potevo fermarmi. Il lutto per Fabrizio lo porto nel cuore.

Cosa rimane oggi di quegli anni?

Una umanità unica e un coraggio senza pari. In guerra, capisci veramente il mondo e l’uomo. Ho scritto il mio libro per dare un senso a quei momenti e per offrire una riflessione sui veri valori di coraggio e onore. La fratellanza che genera questa sensazione non la ritroverò mai più. La mia esperienza mi ha insegnato che in guerra non ci sono bugie, non puoi fingere di essere qualcuno che non sei. Conti solo per ciò che vali davvero. Questi valori di autenticità e verità sono ciò che ho portato con me.

Valeria, può raccontarci della sua collaborazione con il governo americano?

Entrare nel mondo dei contractor è stato un passaggio complesso e delicato. Dopo aver lasciato il settore umanitario, io e Paolo abbiamo seguito un iter rigoroso per ottenere le necessarie autorizzazioni dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. La CIA ha condotto controlli approfonditi su di noi. Alla fine, abbiamo ricevuto l’autorizzazione a lavorare come contractor per il governo americano, un riconoscimento della nostra serietà e competenza. Questo ci permetteva di entrare armati in qualsiasi base americana nel mondo. La nostra missione era proteggere i civili e le infrastrutture cruciali, in un contesto di guerra in cui ogni giorno poteva essere l’ultimo.

Come ha deciso di scrivere il libro e cosa spera di ottenere con la sua pubblicazione?

È dal 2005 che avevo in animo di scrivere questo libro. Appena rientrata dall’Iraq, mi costringevo a scrivere per liberarmi del peso che mi portavo dentro e che non sapevo come gestire. Ho voluto raccontare la mia verità, senza filtri, per dare un senso al passato e trovare una nuova direzione per il futuro. Il libro vuole essere una narrazione sincera della mia esperienza. Spero che la mia storia possa offrire spunti di riflessione sui valori di coraggio, onore e libertà. E verità.

Nella nota conclusiva parla anche del disastroso abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe americane. Cosa ne pensa?

Che ha segnato un punto di svolta tragico per gli afghani. Ho vissuto sulla mia pelle la realtà di un paese in guerra e so quanto la presenza delle forze internazionali fosse cruciale per la sicurezza e la stabilità. La ritirata ha lasciato un vuoto pericoloso, e temo che i progressi fatti negli ultimi vent’anni possano andare perduti. È difficile accettare che il sacrificio di tante persone, inclusi i miei amici e colleghi, possa essere stato vano. Il mio pensiero va a tutte le donne e ai bambini che soffrono le conseguenze di questa decisione.

Un’ultima domanda, Valeria. Cosa pensa dell’attentato a Donald Trump e delle dimissioni del capo del Secret Service, Kimberly Cheatle? Credo che le dimissioni di Kimberly Cheatle fossero inevitabili. Il grande limite degli americani, che a volte è anche un grande pregio, è la loro attitudine a lavorare per compartimenti stagni, sempre in verticale e spesso, come in questo caso, senza riuscire a valutare situazioni imprevedibili. È impensabile che non fossero presidiati tutti i tetti. La reazione di Trump mi ha colpita moltissimo, in quei momenti si è visto davvero di che pasta è fatto. Tuttavia, gli agenti del Secret Service facendolo rialzare hanno fallito un’altra volta. In quelle situazioni il bersaglio va tenuto a terra anche con la forza e messo in sicurezza, non esposto al fuoco di eventuali altri cecchini. È un errore grave che poteva costare molto caro.

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Ulderico de Laurentiis
Ulderico de Laurentiishttp://www.uldericodelaurentiis.it
Direttore Responsabile de "La Voce del Patriota".

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