L’ex presidente Donald Trump non è più ex, ma è di nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Si insedierà, come prevede la legge, il 20 gennaio del prossimo anno, ma sarà lui il successore di Joe Biden, già succeduto allo stesso tycoon nel 2020. La vittoria di Trump è stata netta ed indiscutibile, sia nel raggiungimento della soglia dei grandi elettori che nel voto popolare, e ciò è anzitutto un bene per l’America e il mondo. Molti paventavano, anche in buonafede, un testa a testa o un risultato indecifrabile e in quanto tale, a rischio di non essere riconosciuto da una delle due parti.
Quando si palesa un esito opaco e non si riesce ad indicare subito il vincitore, accadde nel 2000 fra George W. Bush e Al Gore, e per diversi aspetti è capitato anche nel 2020 fra Trump e Biden, si entra in una specie di stallo dalla durata indefinibile e una democrazia come quella americana non può permettersi di accartocciarsi per settimane su ricorsi, riconteggi e cause legali. Le ragioni che hanno determinato il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sono molteplici e proviamo a descrivere almeno alcune di esse. Proprio l’epilogo delle Presidenziali di quattro anni fa può già avere giocato un ruolo nell’affermazione trumpiana di oggi. Quelle elezioni hanno lasciato un sapore amaro perché talune perplessità sullo spoglio di allora, che ha stabilito il sorpasso di Biden su Trump, non hanno mai ricevuto risposte e sembra, perlomeno questa è sempre stata l’impressione di molti, che si sia voluto bloccare a tutti i costi e a rischio di usare mezzi poco ortodossi la parabola politica del repubblicano incontrollabile Donald Trump, il quale non doveva servire la Nazione per altri quattro anni, come è successo ai presidenti USA più popolari. Si tratta di un sentimento diffuso che ovviamente non può essere dimostrato con prove matematiche e però la percezione da parte dei cittadini di un’avvenuta ingiustizia può avere spinto a vendicare la vittima della medesima, peraltro oggetto di successivi ed evidenti accanimenti giudiziari. Le Presidenziali USA 2024 si sono chiuse anche con un monito chiaro per tutti quelli che usano, in America e parecchio in Italia, la Giustizia a fini politici.
I cittadini occidentali, che vivano in Ohio oppure in Liguria, sono ben oltre alla maturità e hanno ormai compreso l’esistenza di trame dietro a talune inchieste-show, e l’attivismo militante di procuratori e giudici non influenza più, per fortuna, le scelte degli elettori. I quattro anni di Joe Biden non sono stati esaltanti e non è servito il rimpiazzo incarnato da Kamala Harris al fine di scongiurare il tracollo dem, (è andata male alla candidata alla Casa Bianca, ma anche a tutto il Partito Democratico, umiliato nel rinnovo del Congresso). Anzi, forse la sostituzione del vecchio Joe con la sua Vice Kamala ha persino peggiorato le cose. Kamala Harris e il suo entourage attribuiscono ora le colpe dell’insuccesso soltanto al presidente Biden, ma la candidatura della ex senatrice e procuratrice californiana è stata respinta in quanto percepita come un qualcosa di costruito artificialmente, non fattosi largo in modo genuino presso la base dem e quindi, non del tutto onesto e affidabile.
Senza scomodare complottismi particolari sebbene a pensare male ogni tanto ci si azzecchi, come riteneva la buonanima di Giulio Andreotti, non sono pochi coloro i quali hanno dubitato della buonafede insita nel passaggio del testimone fra Biden e Kamala Harris. C’è chi pensa che si sia trattato solo di una messinscena, (l’intervento TV confuso di Joe Biden e l’inevitabile ricorso ad una figura più giovane e dinamica), e che in realtà l’arrivo di Kamala fosse stato previsto ed organizzato da anni. L’attempato Vice di Barack Obama è risultato utile ad interrompere, per così dire, l’era trumpiana, ma la predestinata alla guida dei democratici è sempre stata Kamala Harris. Chissà, tuttavia, è certo che i liberal d’oltreoceano, come le sinistre di casa nostra, considerino gli elettori al pari di pecore che si dirigono dove decide il padrone, ma i cittadini, negli USA, in Italia e altrove, non si lasciano imbrogliare facilmente.
I popoli delle democrazie scelgono con consapevolezza e negli Stati Uniti hanno premiato il candidato più trasparente. Donald Trump sarà pure un repubblicano atipico, inizialmente malvisto da settori dello stesso GOP, (Grand Old Party), ma sia nel 2016 che durante il corrente anno il tycoon newyorchese è diventato rappresentativo di tutto il Partito Repubblicano, avendo vinto le elezioni primarie all’interno del partito dell’Elefante con numeri schiaccianti ed essendo entrato in sintonia con la base conservatrice. Trump si è portato dietro, dall’inizio del suo ingresso in politica ad oggi, un consenso notevole che non si è mai sfilacciato visto il risultato odierno. Qualche preoccupazione circa una spaccatura sostanzialmente a metà dell’America c’era ed era pure onesta, ma vi è stato soprattutto il racconto della informazione mainstream e dei radical-chic globali che, non era timoroso di un eventuale processo elettorale turbolento e deflagrante, ma sperava, in caso di mancata vittoria della candidata dem, almeno in uno svolgimento caotico che non permettesse a nessuno di primeggiare. Il tanto peggio tanto meglio, invece, Donald Trump si è imposto con un solido vantaggio e un bacino di voti interclassista e interrazziale, composto da ricchi, meno ricchi, operai, ispanici, neri e arabo-americani.
Dopo il 5 novembre scorso gli Stati Uniti si sono ritrovati più coesi e con una maggioranza politica e sociale che si è manifestata in maniera concreta smentendo del tutto la vulgata mainstream del Trump razzista e settario. Gli americani hanno voluto di nuovo il presidente repubblicano alla Casa Bianca perché anzitutto ricordano ancora bene i primi quattro anni del tycoon come Comandante in Capo. L’economia a stelle e strisce registrava ottime performance e il ruolo degli USA nel mondo veniva reso evidente, soprattutto di fronte ai principali competitor di Washington, Russia e Cina in primo luogo, con determinazione e senso pratico al tempo stesso. Il presidente Trump è stato il primo leader occidentale ad accorgersi della necessità di riequilibrare una globalizzazione troppo sbilanciata a favore della Cina, che per almeno due decenni ha potuto beneficiare delle proprie scorrettezze in ambito commerciale senza particolari reazioni da parte dell’Occidente. Donald Trump è stato e probabilmente sarà ancora il presidente americano più travisato dai media della Storia recente.
Lo descrivevano nel 2016 come un bieco protezionista, un fascista autarchico, e la solfa è la medesima anche oggi, con la sinistra nostrana che già agita spauracchi per l’Europa, minacciata fin d’ora dalle idee di Trump, ma l’ex e nel contempo nuovo presidente USA non ha mai inteso fare della propria Nazione una Corea del Nord di dimensioni continentali, bensì, anche attraverso la ridefinizione degli accordi con i vicini Canada e Messico, e con il Vecchio Continente, si è impegnato a sanare gli squilibri senza con questo bloccare il commercio internazionale. Durante la prima Amministrazione Trump si è fatta largo un’operazione di buonsenso, non antistorica, sulla quale stanno arrivando, con i loro consueti ritardi, anche gli europei, con buona pace di Elly Schlein. Non è un caso che oggi l’Unione Europea promuova dazi sulle auto elettriche cinesi. Grazie a Trump, anche la sempre incerta Europa si sta rendendo conto che la globalizzazione non può essere un gioco che svuota progressivamente l’Occidente e ingrassa i suoi concorrenti, economici e politico-militari.
Trump ha vinto per quanto ha saputo fare dal 2016 al 2020 e per la fiducia generalizzata circa ciò che riuscirà a portare a termine d’ora in poi. Il suo è un insieme di attaccamento a valori precisi del conservatorismo occidentale e di pragmatismo, che serve a riordinare questo mondo caotico. Secondo i mistificatori, oltre al Trump fascistoide e autarchico, c’è il Trump amico dei dittatori e delle autocrazie anti-occidentali. Gli elettori statunitensi, che non hanno l’anello al naso come credono i democratici, gli yankee e i nostri all’amatriciana, vedono invece Donald Trump per quello che è realmente. La scalata al successo e alla ricchezza della sua, per così dire, vita precedente nella nota terra delle opportunità, fa del presidente un arci-americano che di certo non può avere familiarità con le consuetudini di Paesi illiberali o del tutto totalitari come Russia, Cina e Corea del Nord. Il tycoon sa bene da dove viene e quali siano i valori di libertà e di democrazia da difendere sempre, non si lascia senz’altro circuire da Vladimir Putin o da Xi Jinping, ma è dotato di un forte realismo che consente, non di lasciare che le potenze antagoniste facciano ciò che vogliono, bensì di ricercare la via migliore affinché le controversie internazionali si risolvano in tempi ragionevoli e non si subisca il perpetuarsi di conflitti striscianti ed infiniti, dai quali poi nessuno, né l’Occidente e neppure i suoi nemici, esce davvero vincitore.
Donald Trump è tornato al timone degli USA anche per questa sua concretezza quasi manageriale, più efficace dell’internazionalismo democratico e liberal. L’America di Trump non si disimpegna nel mondo, ma si impegna in altro modo e meglio. Quando il mainstream, comunque ignorato dal popolo tanto quanto Madonna e Richard Gere, descrive il presidente repubblicano come un compagno di merende di Putin, è sempre bene ricordare che le fasi storiche nelle quali gli Stati Uniti si sono dimostrati abbastanza accondiscendenti con la Cina comunista, ignorando il Tibet, Taiwan e la repressione dei diritti umani, erano tutti frangenti caratterizzati da Amministrazioni democratiche, da Bill Clinton e consorte a Barack Obama e fino alla coppia Biden-Harris. D’altra parte, quella globalizzazione più pro-Cina che pro-USA, che Donald Trump cerca di correggere, è sempre stata spinta da presidenti ed establishment del Partito Democratico. Contrariamente ai pregiudizi delle sinistre, l’Europa non ha nulla da temere dalla nuova presidenza Trump, che può aiutare semmai l’Unione Europea a fare meglio in merito a tanti dossier e a darsi, insomma, una bella svegliata, per dirla in parole semplici.
Con l’imposizione di dazi alla Cina qualcosa si è già mosso in Europa e l’invito trumpiano rivolto agli alleati europei della NATO affinché contribuiscano finanziariamente in maniera maggiore al sostentamento dell’Alleanza Atlantica, può persuadere l’UE a investire più risorse nella difesa e ad iniziare a costituire la seconda gamba della coalizione occidentale. Entra in gioco la visione europea dei conservatori capeggiati da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia, cioè, la confederazione delle Nazioni UE che si unisce sui grandi temi globali, (difesa, immigrazione, commercio e politiche industriali), e non si perde in lacci e lacciuoli burocratici. Il riaffacciarsi di Donald Trump alla Casa Bianca, oltre agli storici legami di amicizia esistenti fra Italia e Stati Uniti che vanno anche oltre alle varie colorazioni politiche dei singoli premier di Roma e dei presidenti di Washington, permette la costruzione di un ponte ideale sull’Atlantico che unisce le stesse battaglie dei repubblicani USA con il presidente Trump e dei conservatori italiani ed europei con la premier Giorgia Meloni contro le degenerazioni woke, gender e green, e per il primato della sicurezza da tutelare di fronte ai terrorismi internazionali e alla immigrazione clandestina.
La presenza di Donald Trump al di là dell’Atlantico rafforza l’impegno di chi in Europa, (i conservatori di Fratelli d’Italia e di ECR), non si rassegna davanti allo status quo di una Unione Europea che si intrufola negli affari dei Paesi membri spiegando loro quali automobili è bene guidare d’ora in poi e in quali abitazioni debbano ripararsi i loro cittadini, ma allo stesso tempo si dimostra incapace di unirli nel confronto geopolitico con i grandi blocchi del mondo.
Certo la vittoria di Trump ha salvato l’America e anche l’Europa da tracolli rapidi e letali.
Personalmente non mi è mai piaciuto Trump, e non l’ho mai nascosto nemmeno qui. Il mix di arroganza e guasconeria che caratterizza la sua immagine pubblica è lontano anni luce da come a mio modo di vedere debba presentarsi uno statista, soprattutto nella nazione più grande del mondo.
Si vede che agli americani non dispiace, contenti loro. Certo anche in casa nostra non abbiamo tanti statisti, si salva solo l’ultima arrivata, attuale presidente del Consiglio.
Ma speriamo per il meglio.
Sicuramente Trump porrà un freno energico alle derive woke e green, e forse anche in Europa, se collaboriamo, ci saranno benefici. Probabilmente, con il consenso degli Americani, che restano un popolo amante della libertà, riuscirà a porre freno alla deriva socialistoide delle tasse e spesa pubblica, che ha distrutto la vecchia Europa.
Ma le scommesse più serie sono le stesse di prima:
– la sfida delle dittature all’occidente: guerre scatenate da Russia e Iran, preparazione di altre guerre da parte di Cina (Taiwan) e Corea del Nord, guerre continue in Africa, ecc.. Non basta fare battute per venirne fuori. Ci dovremo richiudere nei nostri “orticelli” abbandonando Ucraina, Taiwan e via via altri paesi, in attesa di diventare schiavi delle dittature? Giorgia ha detto senza giri di parole una verità antica: la pace è frutto della deterrenza. Lo dicevano anche i Romani: si vis pacem para bellum. Putin si può fermare solo se capisce che avrebbe danni spaventosi continuando la guerra, non con le chiacchiere. E così gli altri aspiranti guerrafondai. Israele lo ha capito, speriamo lo capisca anche Trump.
– la sfida dell’economia: non basta mettere barriere alla concorrenza sleale, questo è doveroso ma non sufficiente. Occorre costruire una economia più forte, realizzando l’autonomia dell’occidente nel reperimento di risorse minerali, energetiche, alimentari, e costruendo aziende e sistemi economici forti. Forse in questo lo staff del Presidente può fare qualcosa, ce lo auguriamo.
Bentornato Presidente
Auguri a te ed a tutti noi, ne abbiamo bisogno.
Con affetto
A.
Sperando che i repubblicani abbiano la maggioranza anche alla camera, si prospetta un quadriennio in cui le scelte del presidente Trump non potranno essere messe in discussione. Anche l’Europa, almeno quella parte di essa contraria alla follia verde, spera!