Chi decide di quali criminali parlare? Il caso Zarutska e il doppio standard dei media

Iryna Zarutska aveva 23 anni. Era fuggita da un’Ucraina devastata dalle bombe russe, lasciandosi alle spalle macerie e milioni di sfollati. A Charlotte, in North Carolina, aveva ricominciato da zero insieme alla famiglia. Dipingeva, lavorava con pennelli e tele, coltivando il sogno di una vita normale. Ogni giorno saliva sul treno leggero della LYNX Blue Line per spostarsi.

Il 22 agosto quella routine si è interrotta. Su quel convoglio c’era anche Decarlos Brown Jr., 34 anni, un uomo con una lunga storia di crimini violenti e problemi psichiatrici. Senza motivo, l’ha colpita alla gola con un coltello. Iryna è morta sul posto. Brown è stato arrestato e sottoposto a valutazione psichiatrica. Un’altra vita spezzata da un recidivo che non avrebbe mai dovuto trovarsi libero.

Siamo stati tra i primi in Italia a raccontare questa storia, nel silenzio assordante dei media mainstream. CNN, The New York Times, The Washington Post hanno iniziato a parlarne solo 20 giorni dopo, quando la vicenda è esplosa a livello nazionale, scatenata dall’intervento di figure influenti come Elon Musk: la sua morte non si adattava alla narrazione woke, finché non è diventata inevitabile.

La vicenda è entrata nel dibattito pubblico quando Donald Trump, dalla Casa Bianca, ha rotto il silenzio: «Iryna Zarutska era una giovane donna che stava vivendo il sogno americano: il suo orribile assassinio è la conseguenza diretta di politiche fallimentari che proteggono i criminali invece della sicurezza dei cittadini. Non possiamo permettere che elementi criminali, con lunghi precedenti di violenza, continuino a seminare morte e distruzione nel nostro Paese».

Parole che hanno messo a nudo il caos e i problemi di ordine pubblico nelle città governate dalla sinistra, dove politiche come il cashless bail – la “cauzione zero”, che consente la scarcerazione immediata anche di criminali recidivi – trasformano cittadini innocenti in bersagli indifesi. Questa storia è la prova lampante del doppio standard dei media mainstream. In Occidente, l’informazione, un tempo pilastro della democrazia, è stata ridotta a strumento di propaganda al servizio delle élite politiche e ideologiche. La regola è semplice: le vittime valgono solo se funzionali alla narrazione progressista. Non è un caso americano, ma una malattia che infetta tutto l’Occidente, Italia compresa.

Un nome su tutti: Brian Stelter, volto storico della CNN, conduttore di Reliable Sources, presentato come analisi critica dei media ma in realtà baluardo della linea liberal. Autore di libri a senso unico contro i conservatori, promotore del Russiagate e tra i primi a bollare il laptop di Hunter Biden come “disinformazione russa”, Stelter incarna perfettamente il ruolo del “guardiano della narrazione”. È stato licenziato dalla CNN nel 2022, quando la nuova proprietà della rete ha tentato – invano – di liberarsi dall’etichetta di megafono progressista.

Di fronte al caso Zarutska, invece di denunciare il fallimento di un sistema penale che lascia liberi criminali pericolosi, Stelter – intervenendo su CNN – ha accusato figure come Elon Musk o Charlie Kirk di “razzismo” per aver sottolineato la verità: che la vittima era una rifugiata innocente e l’assassino un recidivo liberato dalle politiche indulgenti della sinistra. La stessa ipocrisia che nel 2020 trasformò George Floyd, un criminale recidivo morto durante un arresto, in un simbolo globale, giustificando mesi di rivolte violente.

Ecco il doppio standard: quando serve alla narrazione, un fatto diventa mito. Quando la realtà mette a nudo i fallimenti del progressismo, cala il silenzio. Ma il caso Zarutska non riguarda solo l’America. È il riflesso di un Occidente che ha smarrito il legame con la verità. Il linguaggio è potere: chi controlla le parole controlla la realtà. Per questo i media preferiscono censurare, etichettare, silenziare. Il dogma woke non tollera eccezioni: chi non si piega viene demonizzato. È lo stesso meccanismo che in Europa porta ad arrestare cittadini per un post “sgradito”, soffocando il libero pensiero con leggi travestite da protezione contro i “discorsi d’odio”.

La morte di Iryna Zarutska è un segnale. Ci ricorda che la libertà muore non solo quando un tiranno la calpesta, ma anche quando i media – che dovrebbero difenderla – la tradiscono. È il tradimento più pericoloso, perché avviene nel silenzio, tra le pieghe di un’informazione che non informa più, ma indottrina.

La vera domanda, dunque, non è soltanto quali vite contano, ma soprattutto: di quali criminali si sceglie di dare notizia? L’Occidente ha già visto casi agghiaccianti insabbiati “per non alimentare odio”. Nel Regno Unito per anni è stata nascosta la verità sulle bambine stuprate da gang di immigrati pakistani, e ancora oggi il copione si ripete: se il criminale è nero o islamico la notizia viene minimizzata o sepolta; se è bianco e occidentale viene amplificata fino a diventare simbolo politico.

È questo il vero doppio standard: una narrazione selettiva che non difende la verità, ma un’agenda ideologica. Ed è qui che si gioca il futuro dell’Occidente. Perché senza verità non c’è giustizia, senza giustizia non c’è libertà. Raccontare storie come quella di Iryna significa rompere il silenzio e difendere la nostra civiltà dalle sue stesse menzogne.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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