Passi pure l’abusata formuletta berlingueriana “partito di lotta e di governo”. Non credevamo, però, che il Movimento 5 Stelle potesse arrivare a fare (finta) opposizione al premier che ha indicato: proprio come è avvenuto ieri, con la sceneggiata dell’uscita dei senatori pentastellati prima dell’informativa di Giuseppe Conte sul cosiddetto Russiagate.
Tutto questo come reazione “mediatica” al caso Tav sul quale – in maniera grottesca – è andato in scena il «tradimento» (copyright Beppe Grillo) del presidente del Consiglio, e quindi dei 5 Stelle di cui è espressione, nei confronti dell’ultima trincea rimasta: quel “non possumus” che Luigi Di Maio e Danilo Toninelli avevano assicurato non meno di qualche mese fa.
E invece la Torino-Lione, come era logico che fosse al di là della trovata dell’ennesima analisi costi-benefici, si farà, con i pentastellati costretti a rifugiarsi nel passaggio in Parlamento (dove la maggioranza pro-Tav è schiacciante) come espediente per salvare almeno la faccia dalla «più cocente sconfitta della loro storia», come ha spiegato senza mezzi termini Marco Travaglio sul Fatto quotidiano.
Quello sull’alta velocità del resto è solo l’ultimo (per quanto si presenta come il più grave) dei passi indietro e delle promesse non mantenute che hanno causato la “caduta di stelle” più rapida della storia: dal 34 al 17% in appena un anno di governo. Sui dossier più caldi, del resto, la disfatta è stata totale. Su Tap, Ilva, Atlantia in Alitalia e quindi sull’Alta velocità con la Francia i grillini hanno ceduto colpo su colpo, suscitando nei comitati del “No” – che, dietro promesse radicali (del tipo «chiudiamo l’Ilva in quindici giorni»), avevano investimento politicamente tantissimo su di loro – una delusione così cocente che si è manifestata con la punizione delle urne e con puntuale la via crucis per Di Maio e i suoi ministri quando si recano nelle zone interessate dalle loro promesse.
La sindrome della normalizzazione, per quelli che si candidavano ad aprire le istituzioni «con l’apriscatole», si è manifestata non solo sui cantieri, i “buchi” e le fabbriche ma anche sulle aspettative anti-casta su cui tanto hanno monetizzato elettoralmente.
Una volta insediati a palazzo Chigi (ma a dire il vero già dalla scorsa legislatura) il famoso streaming è rimasto senza connessione, i vertici sempre più carbonari, ma soprattutto si sono infranti tutti i tabù del puritanesimo a 5 Stelle: sì al terzo mandato, con il surreale e anti-aritmetico «mandato zero» (a cui corrisponde, però, lo stipendio “uno”…); sì alle alleanze con le liste civiche (esattamente dove si annida parte di quel trasformismo che dicevano di voler contrastare); sì alle intese con i partiti dell’establishment.
Se l’alleanza con la Lega – per i grillini ortodossi sempre «il partito dei 49 milioni», «di Bossi e del Trota» – è stata giusticata con la retorica del «cambiamento», discorso diamentralmente opposto è l’adesione all’asse della conservazione: quello che nell’Europarlamento unisce Pd-Forza Italia e da adesso 5 Stelle i quali hanno sostenuto, in barba alla narrazione anti-austerity, la più feroce critica della Grecia “spendacciona”, Ursula von der Lyen.
Insomma, alla luce di queste buone intenzioni infrante sullo scoglio della realtà non sarebbe uno scandalo se gli attivisti delusi – e non solo quelli – organizzassero una gigantesca class action nei confronti di Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, i due reggenti del Movimento. Se tante e di tale entità sono le “truffe” nei confronti di chi sognava già un parco urbano (e migliaia di disoccupati) al posto degli altiforni dell’accieria di Taranto oppure di vincere una volta per tutte la guerra “partigiana” nella Val di Susa (l’ultima ridotta dell’antagonismo), farebbero bene a chiedere un risarcimento danni.
E farebbe pure il resto degli italiani, dato che i “no” di bandiera dei 5 Stelle, che si tramutano poi in “nì” e dunque in “sì” pur di scongiurare il ritorno al voto (dove finirebbero terzi, fuori dai giochi, a partire dal capo politico), corrispondono a mesi di laceranti tira e molla. Rallentamenti che costano tempo, denaro e credibilità al sistema Paese che necessità invece di decisioni veloci e orientate ad assicurare all’Italia l’unico cambiamento, quello dello sviluppo, a cui Di Maio & co annunciano di opporsi con adolenscenziale ardore decrescista, salvo poi finire puntualmente in testa coda dopo aver ingranato la marcia indietro. O – come direbbe Gigino – la marcia “zero”.