Nell’era degli algoritmi ha ancora senso parlare di libero mercato? Il dibattito sulle recenti misure varate dal Governo per frenare l’aumento delle tariffe dei voli è un’eccellente occasione per evidenziare come troppi, tra analisti e politici, non abbiano minimamente compreso il ruolo preponderante dell’intelligenza artificiale nella nostra società.
Così, accade che un giorno sì e l’altro pure ci imbattiamo in inutili vaneggiamenti sulle macchine «che potrebbero prendere il sopravvento sull’uomo» o, peggio ancora, su inesistenti metaversi buoni soltanto a far spendere soldi a qualche ingenuo (vedi, giusto per citare un esempio, quelli sul turismo, un controsenso per definizione).
Mentre noi siamo fermi al dito e alla Luna, gli algoritmi determinano gran parte delle nostre scelte e, in virtù di ciò, hanno già rimodellato le regole d’ingaggio del cosiddetto libero mercato.
Anzitutto occorre sgombrare subito il campo da un approccio fuorviante: è errato temere che l’intelligenza artificiale un giorno potrà agire come l’essere umano, piuttosto dovremmo preoccuparci di chi la controlla e se ne serve per indurci a prendere talune decisioni e conculcarci determinate convinzioni. Motivo per cui è fondamentale acquisire una maggiore consapevolezza di quanto l’intelligenza artificiale sia già integrata nella nostra vita.
Come primo esempio partiamo proprio dalla misura voluta dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, che parte dal presupposto che la fissazione dinamica delle tariffe dei voli aerei rappresenti una prassi commerciale scorretta «se porta a pregiudizio sul cliente».
Già, ma come funziona? A gestire tutto è un algoritmo di intelligenza artificiale che, di volta in volta, determina le tariffe in base a una serie di criteri con cui è stato istruito, tra i quali la località in cui si trova l’utente, la sua propensione alla spesa, la domanda su quella particolare tratta e così via. Ergo, il blocco voluto dal ministro, fa sì che le tariffe siano le medesime per chiunque, senza “discriminazioni” di sorta.
Altro che provvedimento da Unione Sovietica. Per meglio comprenderne la giustezza proviamo a traslare sulla dimensione reale gli stessi criteri utilizzati online dall’algoritmo e ipotizziamo che un cliente si rechi allo sportello di Ryanair, chieda il prezzo di un biglietto e l’operatrice gli risponda così: «buongiorno, per poter determinare la tariffa ho bisogno dell’estratto conto delle sue carte di credito, di sapere quali viaggi ha fatto negli ultimi cinque anni, chi ha votato alle ultime elezioni e anche quali sono le sue posizioni in merito ai diritti lgbt».
Credo che sia sufficientemente chiaro a tutti che un simile atteggiamento non sarebbe tollerato, eppure online lo è: il punto è che la maggior parte di noi baratta la sensazione di libertà che trae stando connesso con la completa dismissione della propria privacy regalando, di fatto, tutti i dati che lo riguardano ai proprietari delle piattaforme di rete digitali, che a loro volta li utilizzano per determinarne gran parte delle decisioni.
Un approccio superficiale e passivo, a causa del quale oggi i giganti del web centralizzano potere e profitti rendendo noi utenti del tutto irrilevanti. I modelli di business utilizzati sono essenzialmente due: quello basato sulle commissioni (Amazon, Booking, Just Eat, ecc), che determina il controllo di prezzi e clienti lasciando le briciole agli imprenditori e quello improntato sulla vendita della pubblicità (Facebook, Google e TikTok) che si alimenta grazie al tempo degli utenti e ai contenuti dei media.
In entrambi i casi i dati giocano un ruolo fondamentale, poiché ogni azione che compiamo sulle piattaforme web viene catalogata dai loro algoritmi e utilizzata per proporci informazioni, prodotti o servizi affini ai nostri gusti, al nostro potere di spesa e alle nostre convinzioni.
Ciò significa che ogni singolo contenuto, sia esso la notizia di un quotidiano autorevole o il post di un perfetto sconosciuto, rappresenta l’esca per catturare il nostro tempo attraverso le innumerevoli notifiche che oltretutto ci distolgono in continuazione da quello che facciamo (o dovremmo fare) nella vita reale.
In virtù di tale contesto, va da sé che prima di quanto immaginiamo i governi dovranno porsi seriamente la questione di ridimensionare il sostanziale monopolio dei giganti del web, con i quali attualmente non c’è partita né in termini di infrastrutture, né di competenze.
In questo senso il governo guidato da Giorgia Meloni si dimostra certamente più sensibile di altri mettendo tra i propri obiettivi quello della Sovranità digitale, tema al centro dell’azione del sottosegretario all’Innovazione Butti.
Certo è che nessuna nazione può permettersi di lasciare il controllo dell’intelligenza artificiale nelle mani dei privati, ed è sufficiente leggere i numeri della capitalizzazione delle GAFAM (acronimo di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, nda) per comprendere che, adottando provvedimenti convenzionali, lo squilibrio tra le forze in campo non potrà essere colmato nemmeno in 100 anni.
Occorrono soluzioni coraggiose e out of the box come quella voluta dal ministro Urso, tra le quali potrebbe inserirsi la tassazione delle piattaforme in base al tempo che gli utenti vi trascorrono.
Senza contare, poi, che praticamente tutte le grandi piattaforme e le intelligenze artificiali generative supportano la visione del mondo propria della sinistra radicale e dell’ideologia woke, recitando una parte attiva nella vita democratica delle nazioni occidentali: l’unica eccezione è rappresentata da Elon Musk con il suo X (nome con cui ha recentemente ribattezzato Twitter).
In gioco c’è la sopravvivenza dei valori che stanno alla base della Civiltà Occidentale, state pur certi che ne riparleremo.
Alessandro, probabilmente continuerò a fare osservazioni su alcune tue posizioni, ma quello che hai scritto qui è estremamente centrato e importante.
Vorrei solo sottolineare un elemento implicito in quanto hai gustamente sottolineato tu, relativo al fatto che con i famosi algoritmi le imprese cercano di tassare un reddito, non di farsi pagare un servizio, con una operazione assolutamente inaccettabile sotto il profilo della moralità economica, e naturalmente a danno dei clienti.
Il secondo aspetto è forse ancora più semplice ma è fondamentale: con la diffusione dell’utilizzo degli algoritmi da parte di determinate imprese – sempre più numerose – si crea di fatto una situazione di monopolio che ha già praticamente annullato la concorrenza.
Quando scompare la trasparenza nei prezzi scompare la concorrenza e la condizione di efficienza ed economicità del servizio normalmente collegata a tale condizione.
La stessa situazione di monopolio / oligopolio, comunque di “cartello”, anche forse (chi lo sa?) senza algoritmi, ma con la stessa finalità di imporre al mercato condizioni di non-concorrenza, è quella delle banche.
Per questo lo strumento della tassa straordinaria mi sembra un po’ semplicistico, di solito mi genera molta diffidenza usare le tasse come strumento di intervento sul mercato, sarebbe necessaria certamente qualche misura più forte a difesa della concorrenza.
Con affetto
Alessandro