La conferenza annuale delle Nazioni Unite dedicata al cambiamento climatico, tenutasi quest’anno a Dubai sotto la presidenza degli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre scorsi, si è chiusa né all’insegna di un fallimento e nemmeno contrassegnata da una svolta epocale. Semplicemente, è terminata nell’unico modo possibile, con ragionevolezza e realismo. Gli ambientalisti militanti, i “gretini” del globo, i talebani green e tutti quei poteri che coccolano Greta Thunberg e i suoi seguaci, vedono sempre troppa codardia e pericolose esitazioni in questi summit internazionali riguardanti il clima, e sicuramente anche la Cop28 di Dubai deve essere stata un fiasco per gli integralisti del surriscaldamento del pianeta.
Questi ultimi vorrebbero che non si estraesse più una goccia di petrolio da domani, che le industrie chiudessero i battenti il prima possibile, (se poi avremo milioni di disoccupati, chissenefrega), e che tutti i veicoli termici, nuovi e meno nuovi, fossero rottamati quanto prima, ma il mondo, sebbene vi sia, ciò deve essere tenuto a mente, anche gente che conta fra gli sponsor dell’oltranzismo verde, si sta accorgendo, per fortuna, dopo troppe ubriacature circa il cosiddetto cambiamento climatico, che determinate fughe in avanti non sono possibili, e le conclusioni della Cop28 lo hanno ampiamente certificato. La conferenza avrebbe dovuto chiudersi un giorno prima, ma i negoziati finalizzati a redigere il documento conclusivo si sono protratti sino all’alba del 13 dicembre. Si è voluto trovare un accordo il più possibile soddisfacente per la maggioranza dei Paesi perché la penultima bozza aveva fatto arrabbiare numerose delegazioni in quanto non citava neppure i combustibili fossili, che gli ultras dell’ideologia green vorrebbero mettere in soffitta domattina.
Il compromesso che ha consentito di chiudere il vertice di Dubai non contiene più la dicitura “phase-out”, che indicava l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, bensì chiede ai Paesi di “transitare fuori” dai combustibili fossili in modo equo e ordinato al fine di giungere a zero emissioni nette di gas serra nel 2050. Il testo chiede inoltre di accelerare sull’utilizzo di tecnologie “zero carbon” e “low carbon” come l’energia nucleare, l’idrogeno e la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Tutto questo è troppo timido? Troppo influenzato dal lobbismo dei Paesi produttori di petrolio, a cominciare dagli Emirati Arabi Uniti che hanno ospitato e presieduto la Cop28? E’ palese che coloro i quali devono la loro ricchezza all’oro nero, il sultano emiratino Ahmed Al-Jaber e con lui tutte le monarchie sunnite del Golfo Persico, siano gli ultimi a voler correre verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma c’è anche il raggiungimento, da parte di molti governi del mondo, di un rinato realismo che spinge a considerare utopica o dannosa una elettrificazione, per così dire, di massa e riguardante anzitutto la mobilità, pubblica e privata, e a ritenere impossibile uno stop totale allo sfruttamento delle risorse fossili.
Si preferisce puntare alla diversificazione dell’approvvigionamento e della lavorazione delle risorse energetiche, e i combustibili fossili rimangono insostituibili in molti settori, ma possono subire nuovi processi di trasformazione capaci di creare prodotti sempre più puliti e meno impattanti. Pare che si stia comprendendo la portata del rischio di affidare l’intero mondo ad una sola soluzione come, per esempio, la batteria elettrica, ammesso e non concesso che essa sia poi così benefica per l’ambiente. Per questo motivo, il documento finale della Cop28 di Dubai ha avuto toni soft e non ultimativi, riconoscendo la necessità di una transizione verso nuove tecnologie, ma senza pretendere che tutti i Paesi del globo debbano uniformarsi verso una sola ipotesi e ad una data precisa, anche perché le differenze, dal punto di vista della mobilità e della produzione industriale, non sono poche fra i cinque continenti. Si spera che si vada avanti con tale pragmatismo e che l’ecologismo trasformato in ideologia finisca in un angolo.