Nel 1985 il Muro di Berlino era ancora in piedi, l’America di Ronald Reagan mostrava i muscoli e la Guerra Fredda si combatteva anche al cinema. Quell’anno Sylvester Stallone mise a segno un uno-due che nessuno ha più dimenticato: Rambo 2 e Rocky IV. Due pugni nello stomaco al comunismo e un inno al patriottismo che piacque così tanto al Presidente degli Stati Uniti da citarli come simbolo dello spirito combattivo americano.
Ma Rocky IV era ben più di un film: era un manifesto dei valori occidentali. Libertà, volontà, sacrificio personale. Zero compromessi, zero filtri. Da una parte l’uomo che lotta per sé stesso e per la propria dignità, dall’altra un sistema che schiaccia l’individuo in nome della collettività. Rocky contro Drago era molto più di un match: era la rappresentazione di due visioni del mondo in conflitto aperto.
In Unione Sovietica, la distribuzione ufficiale era ovviamente vietata. Ma negli anni ’80 le videocassette e il mercato nero cominciarono a scavare crepe nel Muro molto prima che cadesse davvero. E così, di mano in mano, quel film finì davanti agli occhi dei russi. Per molti di loro non era solo una storia di sport: era una finestra su un mondo dove un uomo poteva dire no al sistema, rifiutare il ruolo assegnato e scegliere il proprio destino. Drago, con la sua freddezza robotica e la perfezione disumana, era una caricatura in cui era riconoscibilissimo il volto di un potere che esigeva obbedienza cieca e sacrificava l’anima in nome dell’efficienza.
E poi c’era quel finale. Rocky, sanguinante e distrutto, che davanti a un pubblico sovietico pronuncia la frase: «sul ring eravamo in due a ucciderci l’un l’altro, ma penso che è meglio così, che milioni di persone. Se io posso cambiare, e voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare».
Retorica hollywoodiana? Forse. Ma in quegli anni di Perestrojka, con un Paese che cominciava a scricchiolare, quelle parole avevano il sapore di un invito proibito: pensare che un domani diverso fosse possibile. Non era solo cinema: era soft power allo stato puro, un’arma che colpiva senza far rumore, capace di insinuare valori universali sotto la pelle di chi era cresciuto a pane e propaganda.
Quella lezione vale ancora oggi, soprattutto in un’epoca in cui per anni l’Occidente si è lasciato anestetizzare dal politicamente corretto, da una cultura woke che predica inclusività ma in realtà impone un conformismo soffocante. Rocky IV non aveva paura di essere divisivo, perché la verità è divisiva per definizione.
Oggi, in piena stagione post-woke, il pubblico sta tornando a cercare storie che abbiano il coraggio di dire chiaramente da che parte stanno.
E qui il parallelo con Donald Trump viene naturale. Perché la filosofia di Rocky – incassare, cadere, rialzarsi e tornare a combattere più forte di prima – è la stessa che ha sempre animato Trump. L’immagine simbolo di questa affinità è quella scattata a Butler, Pennsylvania, subito dopo l’attentato: volto segnato dal sangue, pugno alzato, bandiera americana sullo sfondo.
Una fotografia che sembra uscita direttamente dalla locandina del quarto capitolo della saga di Rocky, con Stallone avvolto nella bandiera dopo la vittoria su Drago. Non è un caso, ma una coincidenza simbolica che vale più di mille discorsi: un uomo solo contro un sistema che lo vuole a terra, ma che non riesce ad abbatterlo.
Trump e Stallone sono amici di lunga data e condividono la stessa narrazione di fondo: quella dell’individuo che rifiuta di piegarsi, che affronta i colpi e li trasforma in carburante per la prossima battaglia. Non importa se il ring è quello di Mosca o un comizio in Pennsylvania: il principio è lo stesso, e il pubblico lo riconosce immediatamente. Perché non è questione di boxe o di politica, ma di identità.
Oggi, mentre l’Occidente cerca di ritrovare la propria voce, Rocky IV resta un promemoria che la libertà, la determinazione e la dignità personale non si negoziano. Che il consenso universale è un miraggio inutile e pericoloso. E che il cambiamento non nasce dai compromessi al ribasso, ma dalla capacità di combattere, combattere e ancora combattere, anche quando sembra tutto perduto.
Se Rocky poteva cambiare, se persino il pubblico sovietico poteva cambiare, allora possiamo farlo anche noi; purché smettiamo di chiedere scusa per i nostri valori e torniamo a difenderli come meritano: a colpi di verità.