La risposta di Draghi alla Nota del Vaticano è stata assolutamente fuorviante. Dichiarare che lo Stato italiano è “laico e non confessionale” è fuori luogo perché il merito non è la natura dello Stato italiano (che non è in discussione e tantomeno contestata).
La Nota del Vaticano, non a caso notificata alla Ambasciata Italiana presso lo Stato del Vaticano, concerne la possibile violazione degli Accordi fra Stati sottoscritti nel 1984 fra la Santa Sede e lo Stato italiano.
Tra l’altro non si tratta ancora di una contestazione di violazione del trattato bensì, appunto, di una nota per richiamare l’attenzione del governo su possibili violazioni che potrebbero verificarsi a seguito di introduzione nell’ordinamento italiano di norme in contrasto con quelle sottoscritte nel Concordato del 1984, dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal Cardinal Casaroli.
È evidente che qui non rileva la natura o la forma dello Stato, bensì la obbligatorietà del rispetto, secondo il diritto internazionale, delle clausole dei trattati vigenti. Cosicché, paradossalmente, anche in presenza di uno Stato confessionale, questo non potrebbe esimersi dal rispetto di quelle norme sottoscritte fra Stati, anche contrastanti la sua ‘confessione’.
In altri termini, nel diritto internazionale, gli obblighi degli Stati sottoscrittori di un trattato sussistono a prescindere dalla forma e dalla natura dell’ordinamento del contraente.
Dunque Draghi, come Presidente del Consiglio in carica, è tenuto a prendere in considerazione la nota diplomatica dello Stato del Vaticano per valutarne l’effettivo fondamento in relazione al contrasto fra le norme del Concordato e quelle previste dal ddl Zan.
È allora evidente che il Capo del Governo, cui correttamente è stata indirizzata la nota, è sfuggito alla questione con dichiarazioni di principio -non richieste ed ininfluenti- e scaricando sul Parlamento la responsabilità del confronto.
Al contrario, più correttamente, dopo aver riscontrato il fondamento della contestazione, avrebbe dovuto svolgere una attività di comunicazione al Parlamento delle sollecitazioni e delle perplessità sollevate dalla nota del Vaticano.
Occorreva, ed ancora occorre, ricordare che il rispetto degli obblighi di diritto internazionale è richiamato ed esplicitato nella Carta Costituzionale all’Art 7, espressamente per i rapporti tra Stato e Chiesa, nonché agli artt. 10 e 11 e che con l’art 117 addirittura giunge a limitare la potestà legislativa per garantire la loro osservanza.
Cosicché occorreva, ed ancora occorre, ricordare al Parlamento che è certamente sovrano ma nei limiti dell’ordinamento Costituzionale ed occorreva anche introdurre nel dibattito la discussione sulla legittimità costituzionale del ddl Zan, nelle parti in cui è in possibile contrasto con l’articolo due del Concordato 1984, perché limita e condiziona la libera organizzazione sociale e religiosa della Chiesa Cattolica.
Tale fatto, se si verificasse, potrebbe condurre ad un giudizio internazionale arbitrale, certamente perdente, presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.
Ora, al di là della questione giuridica che qui non è solo forma ma anche sostanza, non c’è dubbio che l’alzata di scudi della Chiesa ha evidenziato, ancor di più, la tendenza autoritaria e oppressiva insita in un disegno di legge che, lungi dal difendere dalle discriminazioni, introduce elementi di intolleranza e di limitazioni discrezionali delle libertà di espressione.
Infine due considerazioni politiche.
Innanzitutto questa presa di posizione evidenzia l’attacco del nichilismo alla concezione antropologica del cattolicesimo che risale alle Sacre Scritture, richiamate nella nota, e quindi pone i Cattolici in Parlamento di fronte a scelte esistenziali.
In secondo luogo sembra mancare una discussione a favore dei diritti di chi, non cattolico, potrebbe essere costretto a subire gli effetti perversi e persecutori di questo ddl, senza la protezione del Concordato.
Purtroppo il personaggio è ormai carta conosciuta..