Sul politicamente corretto femminista, o forse sarebbe meglio definirlo transfemminista, grava un’insanabile antinomia ontologica. Perché esso da un lato predica una forma radicale e sovente divisiva di emancipazione femminile, dall’altro asseconda la fluidità di genere che diluisce la differenza sessuale e dunque la stessa femminilità. Il paradosso in questione raggiunge il suo apice nel campo della linguistica, dove convivono nel dibattito odierno due istanze tipicamente progressiste inconciliabili l’una con l’altra. Affonda ormai le radici nel tempo – anche se ha trovato una legittimazione persino istituzionale soltanto pochi anni fa – l’uso di declinare al femminile gli aggettivi.
Già nel 1987 la scrittrice Alma Sabatini pubblicò il suo “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, un vero e proprio vademecum lessicale che, tra le varie innovazioni, suggeriva, per la prima volta, la declinazione al femminile di mestieri o ruoli come “medica”, “ministra”, “senatrice”, “sindaca”. Parole oggi divenute arcinote, ma che negli anni ‘80 appartenevano all’ambito della pura accademia. “Il fine minimo che ci si propone – scriveva Alma Sabatini nella premessa al suo testo – è di dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”. Appare allora alquanto paradossale che gli stessi vessilliferi di questo appello alla dignità femminile propugnino anche l’utilizzo dello “schwa”. Sparute ma rumorosissime e mediaticamente sovraesposte minoranze imbastiscono battaglie intellettuali per affermare l’introduzione di questa “e” capovolta in ragione della desinenza di genere degli aggettivi.
Un esempio? Le parole “tutte” e “tutti” dovrebbero essere sostituite dal neutro “tuttə”, il cui suono è a metà strada tra le cinque vocali esistenti. La pronuncia corretta consiste nel troncare la parola in cui è inserito: “tuttə”, per intendersi, si dice “tutt”. Obiettivo dello “schwa”, secondo i suoi proponenti, è “rendere l’italiano una lingua più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile”. Ma il rischio, piuttosto, è quello di trasformare un testo in illeggibile. Un’autorevole bocciatura è stata decretata dall’Accademia della Crusca. “I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale – osserva la massima istituzione in tema di linguistica e filologia della lingua italiana – non vanno sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali”. Mode culturali, pertanto, quelle delle desinenze al femminile e dello “schwa”, che si contraddicono e si annullano reciprocamente.