Una notizia passata quasi in sordina è quella sulla legge sul fine vita adottata da alcune settimane in Emilia Romagna. Una legge sulla quale a preoccupare non è solo il cosa – il tema è delicato e il mondo delle Istituzioni è sempre apparso diviso, difficile avere correnti di pensiero unitarie all’interno dei partiti stessi – ma anche e soprattutto il come, le modalità con cui l’amministrazione regionale, a guida dem, ha dato il via libera al suicidio assistito. La legge, infatti, proviene da una proposta di iniziativa popolare portata dall’associazione Luca Coscioni ma, invece di passare al vaglio del Consiglio regionale, come un tema così delicato e moralmente complesso chiede, è stata approvata direttamente dalla Giunta attraverso una semplice delibera, evitando totalmente la discussione dell’assemblea regionale.
In questo atteggiamento – quasi si potrebbe dire – di censura del Consiglio, si ravvedono due diverse volontà della Giunta Bonaccini, l’una di tipo morale, l’altra prettamente politica. Riguardo la prima, vietando all’assemblea, rappresentative di tutte le forze politiche legittimate dal voto popolare, di deliberare, si assiste a una vera e propria attuazione di quel modus operandi tipico delle nuove teorie woke e progressiste, che su temi etici e civili come l’aborto e, appunto, il fine vita, vorrebbero imporre giocoforza le loro tesi spacciandole per dogmi, verità assolute impossibili da mettere in discussione e sulle quali il disaccordo, qualora ammesso, sarebbe sintomo di retrogradezza. Non c’è altra strada: o sei dentro oppure sei un cinico. E poiché in questi casi pare che la verità non stia più nel mezzo, il parere dell’assemblea diventa inutile e la legge diventa tale per volontà unilaterale.
Sul piano politico, invece, la questione è più spicciola e si lega al classico opportunismo di sinistra. Una proposta di legge sul fine vita era arrivata anche in Veneto grazie allo stesso governatore Zaia che, diversamente da quanto fatto da Bonaccini, aveva posto il quesito, come normalmente dovrebbe accadere, al Consiglio regionale. La proposta non passò a causa del voto contrario dell’assemblea eletta dai cittadini: ma in quell’occasione, ha fatto scalpore la spaccatura degli esponenti del Partito Democratico, divisi sulle proprie intenzioni. È lecito dunque pensare che le divisioni ideologiche tra dem potessero aversi anche in Emilia. Tuttavia, mentre in Veneto è all’opposizione, in Emilia il PD è il principale partito che sostiene il governatore e una sua rottura si sarebbe declinata non solo come una brutta figura agli occhi del centrodestra (che lì invece è in minoranza) ma soprattutto come un pericolo per la vita del Consiglio e della Giunta. Per la vita delle poltrone, in pratica.
Dunque, Bonaccini ha tagliato la testa toro, dando continuità a quelle modalità pericolosamente osteggianti la democraticità cui la sinistra, dopo i continui DPCM e decreti vari che evitavano il voto parlamentare in pandemia, sembra essere sempre più avvezza. Senza considerare che con tale decisione, Bonaccini ha svilito la stessa causa che voleva così difendere, imbattendosi nel parere negativo della stessa associazione Luca Coscioni: “I provvedimenti presi da Bonaccini hanno dei limiti. Non si può rinunciare al voto dell’Aula”.