Diritti umani. I “commissariati fantasma” di Pechino che agiscono nell’illegalità.

Lo scandalo sulle presunte tangenti pagate dal Qatar per influenzare a proprio vantaggio le decisioni del parlamento europeo ha monopolizzato l’opinione pubblica e l’attenzione dei media. È una vera e propria tempesta che rischia di minare sin nelle fondamenta la credibilità delle istituzioni europee. Il ribattezzato “Qatar-gate” ha letteralmente spazzato via dal dibattito un caso dai contorni altrettanto oscuri e inquietanti.

Stiamo parlando di quello che vede protagonista la Cina: anche questa è una storia di presunte ingerenze e infiltrazioni, e anche qui ci confrontiamo con un Paese dove i diritti umani sono un optional e il dissenso viene sistematicamente represso. Un canone rovesciato rispetto a quello occidentale che potrebbe aver messo radici nelle nostre città e nei nostri quartieri. Questa è la versione della Ong spagnola Safeguard Defenders che denuncia la presenza di più di cento “stazioni di polizia” cinese sparse in cinque continenti.

Commissariati fantasma che agirebbero nella più totale illegalità. Pechino sostiene siano soltanto “stazioni di servizio”, nate per aiutare i connazionali a sbrigare pratiche come il rinnovo del passaporto o della patente di guida. Né più né meno di semplici patronati. Secondo la Safeguard Defenders, invece, verrebbero utilizzate per “assolvere ad uno scopo sinistro e molto più illegale”: “Molestare, minacciare, intimidire e costringere gli obiettivi a tornare in Cina per essere perseguitati”. Sarebbero, in poche parole, dei centri clandestini per il rimpatrio dei cittadini cinesi che hanno conti aperti con il regime.

Un modo per aggirare il meccanismo più complesso della estradizione che, come è noto, non può essere concessa in caso di rischio di violazione dei diritti umani. Una versione, quella della Ong spagnola, corredata da casi documentati: come quello di un cittadino cinese residente a Belgrado, in Serbia, accusato di furto e “convinto a tornare” in Cina il 31 ottobre 2018. Già, “convinto a tornare”. Le modalità di persuasione utilizzate allo scopo sarebbero “minacce di molestie, detenzione o addirittura reclusione di membri della famiglia in Cina” ma anche “negare il diritto all’istruzione ai figli”.

Quanto detto sin qui sarebbe parte della più ampia politica di “persuasione al ritorno” adottata da Pechino per assicurare alla propria giustizia criminali e oppositori politici. Una strategia che tra l’aprile 2021 e il luglio 2022 avrebbe portato al rimpatrio di 230mila persone. “Non ci sono frontiere. Il Partito Comunista Cinese pratica i suoi metodi di repressione violenta ovunque, se teme che gli interessi e la longevità del partito siano insidiati”, spiegava qualche giorno fa a Il Giornale l’esperto di Cina Jack Herndon.

Ci riguarda direttamente il caso di un lavoratore cinese del settore agricolo accusato di appropriazione indebita. È rientrato nel Paese d’origine dopo 13 anni passati in Italia e da allora è scomparso senza lasciare traccia. Nel disegno di “persuasione al ritorno” l’Italia non sarebbe affatto un tassello marginale: stando sempre al report di Safeguard Defenders, dei 30 Paesi interessati dal fenomeno, il nostro è quello dove si concentrerebbero il maggior numero di “commissariati ombra”, ben 11. Il primo sarebbe comparso a Milano nel 2016, poi a Roma, Bolzano, Venezia, Firenze, Prato e in Sicilia.

Un dato non casuale secondo Herndon che dal 2018 monitora l’influenza della Repubblica popolare cinese a livello globale: “Pechino percepisce l’Italia come il ventre molle d’Europa su molte questioni d’interesse strategico. Così i servizi di intelligence cinesi hanno dedicato più risorse per monitorare e potenzialmente costringere la diaspora cinese in Italia”. Forse, è il sospetto ventilato da più parti, ad aprire i nostri quartieri alla polizia del Dragone è stato il memorandum siglato il 27 aprile 2015 da Paolo Gentiloni, all’epoca ministro degli Esteri del governo Renzi, e dal suo omologo cinese Wang Yi. Un accordo di cooperazione internazionale che prevedeva pattugliamenti congiunti delle due polizie, iniziati nel 2016 e interrotti con l’arrivo della pandemia.

A sgombrare il campo dalle ipotesi è intervenuto lo scorso mercoledì il ministro Piantedosi in un question time alla Camera: i presunti commissariati cinesi non hanno “alcuna attinenza con gli accordi” stretti nel 2015. Inoltre, al Dipartimento della pubblica sicurezza non risulta nessuna autorizzazione “all’attività di centri cinesi dedicati al disbrigo di pratiche amministrative in Italia”. Vedremo cosa emergerà dagli approfondimenti annunciati dal Viminale. Certo è che se la versione della Safeguard Defenders dovesse trovare conferme, allora significherebbe che Pechino ce l’ha davvero fatta sotto il naso.

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