E se il missile russo caduto su Odessa avesse ucciso Zelensky e Mitsotakis?

La Russia non pone fine ai propri attacchi ai danni dell’Ucraina e, oltre al fronte militare terrestre del Donbass, le Forze Armate di Vladimir Putin, non quotidianamente, ma con metodo e periodicità, proseguono i bombardamenti aerei e le aggressioni missilistiche sulle città più importanti come Odessa e persino la capitale Kiev, andando oltre, quindi, alle regioni di Donetsk e Lugansk.

L’ultimo centro colpito è stato proprio quello di Odessa, strategica città portuale sul Mar Nero. Come sempre accade, purtroppo, durante le incursioni aeree russe, vi sono stati morti e feriti fra i civili, ma, oltre all’ingiusto prezzo che la popolazione innocente sta pagando da due anni, un missile è caduto ed esploso a 200 metri dal luogo in cui si trovava il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in compagnia, inoltre, del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. Il premier di Atene, prima di un viaggio in Romania, ha voluto fare visita a Zelensky per testimoniare la vicinanza politica della Grecia a Kiev.

Al momento dell’agguato missilistico, i due capi di governo, amara ironia della sorte, stavano commemorando le vittime di un precedente assalto russo. Entrambi ne sono usciti illesi, e lo stesso si può dire del personale al loro seguito, ma la morte è stata sfiorata, essendo passata a soli 200 metri, e il missile di Putin avrebbe potuto tranquillamente uccidere sia Zelensky che Mitsotakis, o almeno uno dei due.

Ci è mancato davvero poco e qui occorre interrogarsi circa l’aumento esponenziale della pericolosità e delle insidie fatali legate all’aggressione militare che il Cremlino non intende frenare in alcun modo. Se il leader ucraino Volodymyr Zelensky fosse stato meno fortunato ed ora si trovasse già fra i più, l’Occidente, dopo due anni di sostegno militare e finanziario, non sarebbe forse costretto ad alzare l’asticella nel suo supporto a Kiev, in un contrasto ancora maggiore con le mire putiniane? Certo che sì! Invece, se a lasciare questo mondo fosse stato il premier greco Mitsotakis, rappresentante di una Nazione UE e NATO, i Paesi dell’Alleanza Atlantica si sarebbero dovuti limitare ad un rimprovero verbale indirizzato a Vladimir Putin e ad un telegramma di condoglianze inviato alla famiglia dell’esponente politico preso in pieno da un missile russo?

Certo che no! Ammettiamo pure che la Russia, come è stato dichiarato dai suoi vertici, non intendesse pochi giorni fa e non intenda in generale uccidere Zelensky, e ancora meno gli stranieri in visita in Ucraina, ma i bombardamenti metodici scagliati sui grandi centri ucraini, anche a Kiev suonano spesso le sirene dell’allarme antiaereo, costituiscono un esercizio molto pericoloso a causa del quale può verificarsi, non una incresciosa disgrazia collaterale, bensì l’incidente purtroppo decisivo, capace di provocare una escalation globale e simile all’attentato di Sarajevo del 1914 in cui persero la vita l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e la moglie, che fece deflagrare la Prima Guerra mondiale. Zelensky e Mitsotakis hanno visto la morte a 200 metri di distanza, ma sarebbe potuta finire decisamente peggio per i due, e, visto che la Federazione russa non rinuncia, almeno al momento, ai propri assalti dal cielo, non è escluso che un episodio del genere possa ricapitare, sempre al presidente ucraino Zelensky, magari in compagnia di qualche altro ospite straniero, inclusa, che Dio non voglia per carità, la nostra premier Giorgia Meloni.

Non sono gli aiuti militari ed economici forniti all’Ucraina dall’Occidente a portare il pianeta ad un conflitto mondiale, anzi, semmai la politica di contenimento occidentale dell’aggressività russa è servita fino ad ora proprio a scongiurare una guerra di vaste proporzioni. Piuttosto, ciò che produce rischi enormi è la percezione, circolata negli ultimi mesi, di una sopraggiunta stanchezza occidentale nel supporto pro-Kiev, la quale, sommata a qualche progresso sul campo, peraltro non determinante, dell’esercito di Mosca, ridà una certa sicurezza al Cremlino, che prosegue imperterrito con la propria campagna di terrore, fino al possibile casus belli globale. L’attacco di Odessa, ad un soffio da Zelensky e Mitsotakis, deve essere visto come un severo monito sia da tutta la classe politica americana, democratica e repubblicana, che dai dirigenti europei.

Il sostegno a Kiev non può che continuare e deve essere, d’ora in poi, anche maggiore, per donare a Putin più dubbi che certezze. L’Europa deve imparare ad assumere iniziative anche da sola, al fine di non lasciare sguarnito il fronte orientale e di reggere dinanzi ad eventuali passi indietro da parte degli Stati Uniti. Questi ultimi, dal canto loro, dovrebbero uscire ogni tanto dal clima di campagna elettorale perenne. Certo, questo è l’anno delle Presidenziali e le fazioni in campo volgono lo sguardo anzitutto verso i loro elettori interni, prima di ciò che accade fuori dai confini, ma i comizi acchiappavoti conducono fatalmente ad esasperare le posizioni e a perdere di vista per alcuni mesi il giusto pragmatismo, che in determinati contesti si rivela fondamentale. Ormai è chiaro, si tratterà di una nuova sfida elettorale fra il presidente in carica Joe Biden e il suo predecessore Donald Trump.

Non è solo quest’ultimo, che senz’altro è avvezzo a giudizi tranchant, a radicalizzare i toni perché anche il normalmente quieto Biden sta facendo del suo meglio per polarizzare lo scontro. Il presidente USA, esagerando a fini elettorali, ha parlato di Trump come di un pericolo per la democrazia, un dittatore che amoreggia, in senso politico, con altri dittatori, tipo il premier ungherese Viktor Orban.

Qui, oltre agli eccessi tribunizi, anche il capo della Casa Bianca cade nel medesimo errore delle sinistre europee e di taluni burocrati di Bruxelles, che è quello della demonizzazione sistematica di Orban, utile solo a spingere Budapest fra le braccia di Mosca. Non si capisce come mai si continui a perseverare in questo sbaglio, anche dopo il recente riallineamento dell’Ungheria sia sull’ultimo pacchetto di aiuti europei per l’Ucraina che circa i nuovi ingressi nella NATO. In ogni caso, gli Stati Uniti si muovono nella logica naturale di una democrazia basata sul consenso popolare, tuttavia, pur nel fisiologico contrasto fra opposti schieramenti, bisogna stare attenti affinché, fra i due litiganti, non vi sia un terzo, (Vladimir Putin), che gode e si sente legittimato a commettere qualunque obbrobrio con il rischio di causare danni mondiali irreparabili.

Sarebbe già un buon segnale il superamento dello stallo al Congresso riguardante i nuovi aiuti USA pro-Kiev perché proprio il missile russo caduto su Odessa, a 200 metri da Zelensky e Mitsotakis, ha ricordato a tutto l’Occidente come rimanga imperativo l’appoggio all’Ucraina e fare sì che non vi sia nulla da festeggiare all’interno delle stanze del Cremlino. Ovvio, sarebbe fantastico se la guerra terminasse presto, per tutti, dalla martoriata popolazione ucraina in primo luogo alle Nazioni occidentali, ma si è scelto un certo tipo di ausilio per impedire a Putin di ingoiare tutta l’Ucraina in un sol boccone e nel contempo, al fine di esorcizzare lo spettro della terza guerra mondiale. Tale approccio ha raggiunto quasi subito il non banale risultato di fermare la Russia nel Donbass, ma le ostilità, a volte dure e in altre circostanze invece più striscianti, proseguono.

Se si intravedesse una via d’uscita più rapida, essa sarebbe la benvenuta e, a tal proposito, Donald Trump ritiene di essere in grado di risolvere il conflitto in 24 ore. Quello che è certo è il senso pratico dell’ex presidente, già rivelato durante il primo mandato. Al di là dello stile utilizzato nelle campagne elettorali, il tycoon newyorchese, in qualità di presidente degli Stati Uniti d’America, ha dimostrato di saper dipanare, in maniera concreta e quasi imprenditoriale, le principali questioni diplomatiche, senza arrendevolezza alcuna e senza fare perdere neanche un grammo di dignità alle democrazie occidentali, nel confronto continuo con le autocrazie antagoniste, Russia e Cina in primis. Ben venga, quindi, la fine veloce della guerra, sebbene sia prima necessario che Trump torni a sedersi all’interno dello Studio Ovale, cosa abbastanza possibile a dire il vero, ma qualsiasi genere di sbocco della crisi, più o meno con l’acceleratore a tavoletta, non può di sicuro fondarsi solo sulle condizioni gradite a Vladimir Putin.

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

1 commento

  1. Caro Roberto, la tua analisi, ricca di suggerimenti, e giustamente di luce e di ombre, non lascia molto ottimismo.
    L’impressione è quella che l’Occidente desideri mettere la testa sotto la sabbia, come si dice – ma sembra non sia vero! – facciano gli struzzi.
    La resistenza dell’Ucraina sembra dare fastidio a molti.
    Agli europei, imbelli e pacifisti (ah, ci fosse un altro Churchill!), a Trump, desideroso di ripristinare l’isolazionismo americano, ma anche a Biden, stufo di pagare senza un vero consenso interno, perfino al Papa, che senza giri di parole ha suggerito all’Ucraina di alzare bandiera bianca.
    Va bene riportare Orban ad un maggiore allineamento con la NATO, come ha fatto Giorgia.
    Ma come fare a far capire all’Occidente che siamo sotto attacco da parte di tutti i regimi dittatoriali e incivili – i Greci li chiamavano barbari…): Russia, Islam, Cina.

    Sono e sarò sempre per la libertà dei popoli e per la civiltà, la nostra beninteso, anche se per qualcuno non è politically correct.

    Con affetto

    Alessandro

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