Acquistando Twitter, Elon Musk ha attirato su di sé l’ira funesta dei gendarmi del politicamente corretto: un esercito composto da giornalisti, politici, manager e opinion maker veri o presunti, tutti accomunati dalla devozione all’ideologia woke.
Poverini, c’è da capirli, perché con la gestione di Jack Dorsey il social dell’uccellino rappresentava il loro megafono, esclusivo e militante a tal punto da arrogarsi il diritto di decidere di cancellare le opinioni non allineate al pensiero unico, a partire da quelle dell’inviso Donald Trump mentre era ancora presidente degli Stati Uniti in carica.
Come se non bastasse, pochi giorni dopo Musk ha pubblicato i documenti che dimostrano come e perché Twitter censurava i contenuti di orientamento conservatore: si tratta dei TwitterFiles che, ça va sans dire, per i motivi di cui sopra sono stati raccontati in modo volutamente parziale e riduttivo dai media mainstream e in alcuni casi – per onestà intellettuale va detto – sottovalutati dalla stampa non allineata, soprattutto alle nostre latitudini (motivo per cui ho deciso di pubblicarli integralmente nel mio ultimo libro).
Carte da cui emerge nitidamente come i vertici di Twitter agissero in nome e per conto di Cia ed Fbi bannando o applicando lo shadow ban (una sorta di silenziatore) ai profili sgraditi o addirittura occultando argomenti come lo scoop del New York Post sugli scandali riguardanti Hunter Biden, figlio di Joe, proprio alla vigilia delle elezioni del 2020.
Per comprendere quanto fosse politicizzata l’azione di ogni singolo dipendente di Twitter è utile citare un altro dato emerso dai documenti divulgati da Musk, ovvero che negli anni 2018, 2020 e 2022, il 96%, il 98% e il 99% delle donazioni politiche dello staff di Twitter sono andate ai Democratici.
Basta censura
L’obiettivo di Musk è molto semplice, ovvero ristabilire il sacrosanto diritto di poter esprimere qualsiasi opinione al netto – ovviamente – delle responsabilità che il singolo utente si assume rispetto ai contenuti che pubblica. Per capirci, Twitter non eserciterà più la funzione di Ministero della Verità di orwelliana memoria arrogandosi, come ha invece fatto negli ultimi anni, l’autorità di decidere quali idee avessero diritto di essere espresse e quali altre no.
Parallelamente alla libertà di espressione, Musk sta puntando su un altro dei suoi cavalli di battaglia: l’eliminazione degli account “fake” e dei bot che vengono programmati per eseguire in automatico alcune azioni finalizzate a condizionare i “top trend” dando quindi visibilità a determinati argomenti in modo fraudolento.
In prospettiva ad ogni profilo dovrà corrispondere un’identità verificata attraverso un documento, un approccio che fino ad ora non è stato applicato per una ragione molto semplice: diffondendo contenuti, i profili fake contribuiscono ad alimentare il business delle piattaforme.
Capite bene che si tratta di un tema affrontato sempre con grande ipocrisia: con una mano attacco (a senso unico) le fake news e con l’altra continuo a permettere il proliferare di profili falsi. Elon Musk lo ha compreso e pensa che offrire agli utenti un’esperienza qualitativamente diversa possa consentirgli di acquisire un enorme vantaggio rispetto a competitor che oltretutto ultimamente non se la passano benissimo.
Obiettivo: rovesciare il paradigma dei social network (e informazione)
Da un lato ci sono le ingenti perdite di Meta, che derivano in gran parte dalla voragine creata da Zuckerberg con gli investimenti sul metaverso che attualmente, con buona pace dei suoi fan, ancora non esiste. Dall’altro c’è TikTok, che punta esclusivamente sull’intrattenimento improntato al livellamento verso il basso – e alla conseguente alienazione – degli utenti che usufruiscono della piattaforma attraverso la quale il governo del regime comunista cinese accede ai dati di tutti gli iscritti.
Nel mezzo può benissimo starci un social network per tutte quelle persone che non si accontentano di spendere il loro tempo scorrendo meccanicamente un feed popolato da contenuti prevalentemente privi di senso e che, al contrario, intendono investirlo frequentando una piazza virtuale che consenta loro di aggiornarsi direttamente dalle fonti, di partecipare al dibattito pubblico esprimendo liberamente la propria opinione e di poter interloquire direttamente con gli opinion leader dei settori di loro interesse. Il tutto finalmente scevro da hater anonimi e divulgatori di contenuti spazzatura.
Non a caso Musk si rivolge direttamente ai content creator: nella sua mente X sarà social e media, ovvero chi crea notizie non dovrà più avere la necessità di passare da un editore e da una testata, ma le pubblicherà direttamente su X, guadagnando soldi. Infatti, alcune settimane fa ha scritto che «ormai i giornali pubblicano quello che abbiamo letto su X il giorno prima».
È una sfida all’attuale duopolio Google-Meta attraverso il lancio del concetto di Smart Journalism, tema sul quale vi invito a leggere questa mia analisi pubblicata nel gennaio 2021.
Insomma, Musk è un innovatore che detesta autenticamente la deriva woke, ma che ha una sua visione delle cose, che è mutevole in base al contesto geopolitico. Ora sta investendo in Grok, un’alternativa wokefree a ChatGPT, e questo ci piace, ma anche in Neuralink e questo potrebbe piacerci meno.
Personalmente, se l’alternativa sono Zuckerberg e Co, mi tengo stretto Musk e non vedo l’ora di ascoltare ciò che dirà sabato ad Atreju.