Nasce da una famiglia modesta e islamica osservante, a Istanbul, nel 1954. Trascorre i primi anni della sua vita vendendo limonate e focacce al sesamo nei quartieri più poveri della città. A quell’epoca, nessuno immaginerebbe per lui il futuro radioso e importante che lo aspetta. Certo è che Recep Tayyip Erdoğan, ce l’ha messa proprio tutta per arrivare alla posizione che ha oggi, e che sempre di più lo vede come “un uomo solo al comando” o, se vogliamo dirla con meno diplomazia, un “quasi” dittatore.
Tutto per lui inizia alla fine degli anni ’70, all’ombra del suo mentore e importante uomo politico dell’epoca, Necmettin Erbakan, nell’allora Partito del Benessere di ispirazione islamico-conservatrice. E questo permette al giovane Erdoğan di farsi strada fino a diventare sindaco di Istanbul, città bellissima, cosmopolita e, da sempre, ponte tra l’occidente e l’oriente. Il giovane leader, però, all’epoca è infiammato da sacro furore islamico, e finisce per essere giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso dopo aver declamato in pubblico versi di un poeta che incita alla guerra santa. E per questo finisce pure in galera, anche perché il suo potente mentore, Erbakan, è ormai fuori dai giochi, costretto a ritirarsi a vita privata. Quando Erdoğan esce di prigione, ha però ben chiaro che deve cambiare atteggiamento se vuole continuare l’esperienza politica in una Turchia che a quel tempo sembra più proiettata verso l’occidente che disposta a fare muro intorno alla religione islamica. Così il nostro fonda il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), nettamente più moderato rispetto al Partito del Benessere. E’ iniziata una sorta di “operazione simpatia”, tutta rivolta all’Occidente, tanto che AKP viene accettato con lo status di osservatore presso il Partito Popolare Europeo.
Da quel momento, la carriera politica di Erdoğan ha davanti un’autostrada. L’AKP diventa il primo partito, e lui primo ministro. Ma a mano a mano che il potere del leader aumenta e che l’AKP allarga sempre più la sua base, Erdoğan sembra tornare lentamente sui suoi passi, cominciando a rimangiarsi sempre più gli atteggiamenti di apertura verso l’Occidente, fino al 2008 quando improvvisamente viene alla luce un piano per un colpo di Stato che permette ad Erdoğan di effettuare una pesante epurazione nelle forze armate, le uniche fino a quel momento capaci di contenere il suo sempre più straripante potere. Così, tra elezioni non proprio limpide, manifestazioni represse nel sangue, discorsi che sempre di più infiammano i turchi e un ritorno al concetto di religione come cuore dello stato, si arriva ad oggi, alle ultime elezioni, dove il presidente ottiene oltre il 52% mentre il suo più diretto rivale, Ince, contesta la consultazione sostenendo che i dati finali siano stati manipolati.
Alla luce dei fatti, però, è certo che Erdoğan rimarrà in sella almeno fino al 2023 – salvo cruente e imprevedibili destituzioni – con una serie di poteri che lo rendono sempre più vicino alla figura del dittatore assoluto, non ultimo quello di potersi anche ricandidare dopo quella data. Nel frattempo, però, mentre la carriera di Erdoğan si impennava, l’economia turca, per anni positiva, si avviava alla crisi che oggi è esplosa nel paese. Il presidente, però, è più impegnato su altri fronti per crearsi il problema del benessere finanziario del suo paese. Ha infatti trasformato il sistema istituzionale turco da un modello parlamentare a un sistema presidenziale spregiudicato, con un grandissimo accentramento di poteri politici nella figura del presidente, cioè lui. Ora Erdoğan avrà grandissima libertà nella nomina di giudici e ministri e potrà approvare decreti o avviare indagini sull’operato di funzionari governativi, senza voler considerare all’enorme controllo che ormai esercita sui media nazionali, soprattutto dopo il commissariamento di uno dei principali giornali d’opposizione, Zaman. E anche i rapporti sempre più stretti che Erdoğan ha allacciato con i partiti più anti occidentali e che professano l’ortodossia islamica, fa capire che l’operazione simpatia con l’Occidente è terminata, salvo alcuni affarucci, tipo accettare miliardi per cercare di diminuire le partenze dei migranti che oggi appare quasi come una forma di ricatto nei confronti di quella UE che ha rischiato di accettare la Turchia tra i suoi membri. Rischio che, almeno per ora, sembra sventato, anche perché negli ultimi tempi i rapporti tra la Turchia di Erdoğan e gli Stati Uniti si sono parecchio raffreddati. E, come sempre avviene in questi casi, negli States è cominciata una sorta di campagna a favore dei diritti civili in Turchia, cosa che non succede mai nei confronti di quegli stati dove pure i diritti umani si calpestano ma che restano politicamente vicini agli Stati Uniti. Potere dell’amicizia…