Fare i conti con la realtà non significa mantenere lo status quo in eterno

Governare non è mai semplice, soprattutto se ci si trova davanti ad una nazione complessa come l’Italia. Nelle democrazie in generale, nelle quali occorre rendere conto agli elettori e rispettare determinati contrappesi, non sempre tutto fila liscio come l’olio, anche se l’imperfezione dei sistemi democratici resta preferibile all’apparente perfezione delle dittature.

Persino i presidenti americani, che pure godono di stabilità e poteri ben diversi da quelli, per esempio, dei presidenti del Consiglio italiani, a volte non riescono a fare tutto ciò che promettono in campagna elettorale. Per correttezza e par condicio ricordiamo sia il repubblicano George Bush senior, il quale non mantenne l’impegno di non aumentare le tasse, che il democratico Bill Clinton, il cui piano mirato a rivoluzionare la sanità americana rimase lettera morta.

L’Italia è uno di quei Paesi democratici più complicati per quanto riguarda la soluzione, netta e incisiva, dei problemi da parte della politica. Il momento attuale non è facile per nessuno nel mondo, (gli strascichi del Covid pesano ancora, le spinte inflattive e le conseguenze della guerra in Ucraina riguardano tutti, e di certo non solo la nostra Penisola), ma in Italia, oltre alle emergenze contingenti, bisogna tenere conto del perdurare cronico di vecchi problemi irrisolti e antiche incrostazioni.

In passato si è cercato troppe volte di tirare a campare, e naturalmente, come diceva la buonanima di Giulio Andreotti, è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, ma la politica non può essere un continuo scaricabarile. Non si può rimandare sempre e lasciare la patata bollente a chi viene dopo. Purtroppo, numerose classi dirigenti avvicendatesi negli anni alla guida dell’Italia non hanno mai voluto o potuto compiere lo sforzo di prendere di petto quei quattro o cinque bubboni principali, che comprimono da decenni le potenzialità di questa nazione in Europa e nel mondo.

Vi è stato immobilismo anche in congiunture economiche ed internazionali decisamente migliori dell’attuale. La stabilità dei governi costituisce ancora un’incognita perché un serio processo riformatore riguardante le Istituzioni repubblicane è sempre stato eluso. Un esecutivo ricattato e ricattabile non può fare grandi cose. Lo Stato ha rappresentato per molti un gigantesco pozzo di San Patrizio grazie al quale poter scialacquare il denaro pubblico senza controllo, ritegno e buonsenso, e soprattutto, senza offrire neppure, nonostante la spesa ingente, servizi di qualità.

Da qui, il circolo vizioso che impedisce di diminuire l’imposizione fiscale, (lo Stato ha troppe spese e non si può permettere di rinunciare alla maggior parte dei balzelli, e se un’imposta viene eliminata o anche solo ridotta, si apre subito una falla a cui bisogna porre rimedio). È scontato come un quadro di massiccio prelievo fiscale e livelli pesanti di burocrazia, scoraggi la libera intrapresa privata.

Poi, c’è il fiato sul collo dell’Italia da parte della Unione europea, che fatalmente influenza i progetti dei governi nazionali. Questa Ue merita più di una critica, necessita senz’altro di una radicale revisione, cominciando dai Trattati, e deve essere affrontata a testa alta, senza complessi di inferiorità, (bene fa il Governo Meloni a rispedire al mittente la dirigistica direttiva europea sulle cosiddette case green).

Ma, diciamocelo, se l’Italia è divenuta negli anni, più di altri partner europei, una sorta di osservato speciale, beh, ciò è successo anche un po’ per colpa sua. Una nazione instabile, politicamente e finanziariamente, consuma ogni giorno un pezzo della propria credibilità.

Giorgia Meloni, quando, in campagna elettorale, con Fratelli d’Italia e il resto del centrodestra, si è candidata a governare la nazione, sapeva benissimo a cosa sarebbe andata incontro. Infatti, ha offerto agli italiani, vincendo evidentemente la scommessa, una proposta politica conservatrice e patriottica, da realizzare però per gradi e nel corso di una legislatura. C’era e rimane la consapevolezza delle difficoltà, vecchie e nuove, di questo Paese, ed è stata appresa anche la lezione impartita, magari involontariamente, da quei leader che hanno garantito un Eden immediato salvo poi dover innestare la retromarcia e perdere così, in maniera piuttosto prematura, prestigio e consensi.

La prima Manovra economica del Governo Meloni è stata caratterizzata dal senso di responsabilità e dalla prudenza, e tuttora ci si muove con accortezza. Come si dice, la coperta è corta e ci può essere qualcuno condannato, si spera in modo temporaneo, a rimanere con i piedi al freddo, che, del tutto comprensibilmente, non può certo fare salti di gioia. Alzi la mano chi è felice di spendere così tanto di carburante per la propria automobile o il proprio veicolo commerciale. Chi scrive, il quale usa ogni giorno l’auto per recarsi al lavoro, è il primo degli arrabbiati, ma è pure cosciente del fatto che il Governo, trovandosi fra le mani, appunto, una coperta di ridotte dimensioni, abbia dovuto compiere delle scelte dolorose, anteponendo, almeno nell’immediato, gli aiuti destinati al caro-energia al taglio delle accise sul carburante per autotrazione.

L’opposizione parlamentare, e tutti i suoi pretoriani dislocati nei talk-show e sui giornali, quasi gongola perché, a suo dire, Giorgia Meloni si starebbe già rimangiando la maggior parte delle promesse elettorali, dovendo fare i conti con una realtà ben diversa dal libro dei sogni scritto, in teoria, prima delle elezioni. Avrebbe ceduto, secondo la versione della sinistra, su accise, migranti e rapporti con l’Europa.

Comprendiamo che il Partito Democratico, sempre più povero di proposte e contenuti, che, fra l’altro, sta pure faticando a delineare i contorni del proprio congresso, si aggrappi a tutto pur di darsi ancora un tono, anche contraddicendosi.

A volte, il Governo Meloni sarebbe pericolosamente identitario, di destra-destra, mentre in altre circostanze esso viene giudicato, sempre dai soliti noti, addirittura più draghiano di Mario Draghi.

La verità è che, come è stato scritto, Giorgia Meloni ha mantenuto lo stesso approccio sia durante la campagna elettorale che in questi primi mesi a Palazzo Chigi, ma tutto questo non significa che la leader di Fratelli d’Italia e presidente del Consiglio intenda accettare e spalmare per l’eternità la situazione attuale con cui è costretta a fare i conti.

La differenza fra la Meloni e i suoi detrattori di sinistra, che occupano il loro tempo ad analizzare le presunte giravolte meloniane, è che questi ultimi sono davvero rassegnati ad un presente e ad un futuro mesti per l’Italia. Non ci si può aspettare molto da lor signori perché la loro resa dinanzi ad un’idea di Paese paria in Europa e incapace di riformarsi, è ormai conclamata.

Mentre Giorgia Meloni sa bene, al fine di non sciupare anzitempo il capitale politico creato partendo dalla Garbatella e giungendo sino a Palazzo Chigi, di dover dare vita ad una profonda fase di rinnovamento, graduale, visti i tempi, ma capace, mattonella dopo mattonella, di erigere strutture destinate a durare. Tocca a lei dare l’input a delle riforme istituzionali che garantiscano quella stabilità dei governi tanto agognata dall’Italia, e nella maggioranza di centrodestra si sta già lavorando ad una sintesi utile fra il presidenzialismo caro a Fratelli d’Italia e le Autonomie regionali particolarmente sentite dalla Lega.

E spetta sempre a questo Governo dare avvio alla razionalizzazione dell’uso del denaro pubblico in modo che non vi sia più l’obbligo di compiere scelte sgradevoli come il fatto di dover decidere fra gli aiuti alle bollette e il taglio delle accise. Giorgia Meloni, con buona pace di alcuni soloni televisivi e giornalistici, è ancora perfettamente consapevole della propria missione.

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

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