Il movimento femminista, internazionalmente parlando, non è più quello di una volta. Non è più quello che si batteva, a cavallo dei secoli XIX e XX, per i diritti delle donne, che all’epoca erano risicati. Quello che nacque rivendicando l’accesso delle donne all’attività politica, attiva e passiva, con il diritto di voto e la possibilità di candidarsi. Oggi il mondo femminista potrebbe avere parecchi obiettivi, come ad esempio combattere contro le teorie woke ed Lgbt, che nella loro deriva equalitaria vorrebbero appiattire la differenza tra generi, ovviamente a scapito del sesso più debole. Un esempio lo si è visto ai Giochi Olimpici, con la nostra campionessa Angela Carini costretta al ritiro contro la forza di un’avversaria dotata di un livello di testosterone più simile a quello di un corpo maschile, ma che il Cio ha reputato ugualmente idoneo a gareggiare tra le donne, appellandosi specialmente al “sentire” dell’atleta, cioè al fatto che la Khelif si senta più donna che uomo, malgrado i dati scientifici (pure colpevolmente carenti) non siano totalmente d’accordo. Il tutto, nel più totale silenzio della sinistra “femminista”. Oppure, altra battaglia del mondo femminista sarebbe quella di liberare le donne che vivono in culture fortemente maschiliste, che negano anche le più banali facoltà personali, come la possibilità di uscire di casa con il volto scoperto o di scegliersi l’uomo da sposare.
Clima di odio
Il problema di fondo del femminismo odierno, con ripercussioni inevitabili sulle sue battaglie, è che si ritrova fortemente politicizzato, appannaggio di una classe politica che utilizza la causa femminista a proprio piacimento. Il che contribuisce irrimediabilmente a una deriva ideologica evidente, che porta a una divisione scellerata tra chi è donna e merita il rispetto che si deve a una donna, e chi invece pur essendo donna le resta preclusa ogni possibilità di essere considerata tale, immeritevole di qualsiasi difesa. Lo si vede chiaramente con Giorgia Meloni, primo Presidente del Consiglio donna della storia italiana, ma mal vista da tutto il mondo progressista. Il perché è semplice: è di destra, per nulla vicina alle derive femministe e alle loro più inutili battaglie odierne. E pur lavorando costantemente in favore delle donne, e pur dando costantemente esempio che si può essere donna ricoprendo incarichi importantissimi e impegnativi come quello di premier, la contrarietà verso di lei è così forte da scaturire pure in minacce di morte belle e buone, in un clima di odio e di tensioni senza precedenti.
La destra infrange altre barriere
Non ci stuferemo mai di raccontare di quando la dem Serracchiani, alla presentazione del nuovo governo alle Camere, accusò la premier, seduta sulla scranno più alto tra quelli riservati all’esecutivo, di essere “un passo dietro agli uomini”. Un paradosso ancora inevaso. Da lì partì la contro-strategia dem che, forse scottata dal fatto che dopo tanti proclami la prima premier donna fosse di destra, ha tentato il tutto per tutto, emulando la maggioranza nel tentativo di creare un’anti-Meloni: Elly Schlein diventa segretaria del Pd. Una che sostiene che “c’è differenza tra una leadership femminile e una leadership femminista”: tesi che certo non voleva riconoscere nella Meloni la figura di riferimento per le donne qual è. Ma i progressisti ora restano scottati per altre barriere infrante dalla destra: è l’attuale governo ad aver nominato Daria Perrotta come nuovo Ragioniere dello Stato. È la prima donna a ricoprire tale incarico, e già contro di lei si sono levate le delegittimazioni della sinistra. Ma lasciano, come sempre, il tempo che trovano: “Il suo percorso professionale è contrassegnato da alta competenza e dedizione. A lei le più sincere congratulazioni per questo prestigioso incarico”, ha scritto sui social il presidente del Senato Ignazio La Russa. Nomina che succede a quella di Giuseppina Di Foggia, prima donna a diventare amministratore delegato di una partecipata pubblica. Dunque resta il quesito: a sinistra si dicono progressisti, ma di cosa?