Nelle intenzioni di qualcuno avrebbe dovuto rappresentare una sorta di predellino leghista, il blitz per lanciare dal cuore d’Italia – Roma – una coalizione vincente perché maggioritaria sì ma con il partito del leader del Carroccio come motore immobile. Tutti gli altri? Ospiti, appendici. È finita, al contrario, con Giorgia Meloni incoronata da piazza San Giovanni non solo come co-protagonista, fatto già abbondantemente stabilito, del nuovo destra-centro ma come madrina politica di una coalizione con “le idee a posto” sul portato (l’identità nazionale come motrice della storia), sul presente (l’opposizione alle «due sinistre», il «governo degli sconfitti») e sul futuro (una coalizione che può procedere «nella marcia inarrestabile» solo se prometterà a se stessa e al suo popolo che non andrà mai «né con il Pd né con i 5 Stelle»).
Meloni come custode, cerniera – certo – ma anche da ieri sempre più al centro della scena e soprattutto applauditissima interprete “senza macchia” (tradotto “senza inciucio”) alle spalle: elemento, questo, che rappresenta la stella polare, la bussola imprescindibile nel momento in cui il presunto terzismo dei 5 Stelle ha impiegato nemmeno un mese per diventare la comoda costola del Pd. Con un programma – a partire dallo ius soli, la lotta al ceto medio, la sortita anti-sviluppista – che più antipopolare e distorsivo della volontà generale non si poteva.
Non è un caso che ogni punto dell’intervento della leader di Fratelli d’Italia – dallo scippo della sovranità alle tasse, dalla Turchia al disastro Raggi – sia stato scandito da un’ovazione: del resto per tutti i quattordici mesi di governo gialloverde gli stessi militanti leghisti non hanno mai smesso di ripetere a Salvini «andate insieme tu e Giorgia». Segno di un’osmosi fra popoli, di un blocco sociale compatto, di un afflato fra “comunitari” antinomico ai “liberal” inscatolati nelle poltrone del governo perché terrorizzati dal responso elettorale.
Il passaggio centrale dell’intervento di Meloni, indirizzato contro «il gioco del pensiero unico» su cui intende alimentarsi l’esecutivo «rosso-giallo», è il paradigma che dà un codice, un ordine, una narrazione, ai sintagmi della piazza: «Quando non avremo più radici saremo privi di consapevolezza. Vogliono reintrodurre genitore 1 e 2 nei documenti, come se fossimo cittadini “x”, dei codici. No, noi siamo persone: io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete».
Sta tutto qui il senso di un’opposizione chiamata a rappresentare una maggioranza ben più ampia degli stessi partiti che si pongono a sua difesa. Per questo la vittoria del tricolore – come è avvenuto il 9 settembre davanti a Montecitorio – sul vessillo di parte, sul “particulare”, non è tanto e solo l’affermazione egemonica di una vocazione che Fratelli d’Italia rappresenta da sempre ma il grande investimento che spezzoni importanti di elettori, anche non di centrodestra, sono pronti ad indirizzare nei confronti del ticket Salvini-Meloni.
Per tutti questi motivi è risultato sostanzialmente inutile e controproducente il tentativo di inglobare il popolo di San Giovanni dentro le maglie di un partito. È un messaggio ben più ampio quello che giunge dagli italiani, una responsabilità che va oltre la campagna elettorale. È una battaglia di civiltà che richiede unità e rappresentazione. «Libertà e sovranità sono i principi che ci uniscono da sempre», ha concluso così Meloni richiamando la coalizione a tenersi insieme «nel nome dei principi e non degli interessi». Un patto – altro che contratto – sul quale lei ha chiesto già alla vigilia delle Politiche ai due alleati di metterci la firma. Una firma che avrebbe evitato il reddito di cittadinanza «a nomadi e brigatisti» e l’ennesimo ritorno del Pd al governo senza passare dalle urne. Da ieri con lei sono in 200mila a chiederlo.