Gli hibakujumoku e il loro urlo contro l’atomica

I giapponesi mi hanno sempre affascinato, innanzitutto per la loro capacità di coltivare nei nomi le sfumature dell’esistenza.
Sono stati capaci, poi, di ricominciare dopo lo sgancio sul loro territorio di due bombe atomiche e tornare a essere rilevanti come Nazione del Pacifico.
A Hiroshima e Nagasaki, dopo le esplosioni che le rasero al suolo nel 1945, alcuni alberi sopravvissero. Silenziosi e immobili, ma vivi.

Tra le ceneri e la devastazione, resistettero al calore estremo, alla pressione, alle radiazioni. Alcuni persero la chioma, altri vennero spezzati, ma con il tempo ricominciarono a germogliare. Quelle piante sono oggi conosciute con il nome di “hibakujumoku”, gli alberi bombardati.
Non sono solo sopravvissuti: hanno rifiorito, prodotto frutti, generato discendenti.

Uno di questi si trova oggi nei “Giardini di Confucio” a Roma, piantato come simbolo di pace e rinascita.
Stare accanto a questo kaki significa avvicinarsi a una memoria che non ha bisogno di parole: racconta con la sua sola esistenza e urlano la capacità della vita di resistere all’odio, alla distruzione, alla follia umana.
Sono simboli universali, che uniscono l’Oriente e l’Occidente, la spiritualità e la responsabilità civile, il passato e il futuro.

In un mondo in cui il ricordo si fa sempre più fragile, un albero può diventare archivio vivente, coscienza radicata, promessa di pace. Chi si ferma ad osservarli comprende che la pace non è assenza di guerra, ma una costruzione lenta, quotidiana, radicata nella terra e nella coscienza.

Albert Einstein, che ben comprese le conseguenze della bomba che la sua stessa firma contribuì a sollecitare, ci ha lasciato un monito che vale ancora oggi:

“Il problema non è l’energia nucleare, ma il cuore dell’uomo”.

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Cinzia Pellegrino
Cinzia Pellegrino
Coordinatore Nazionale del Dipartimento Tutela Vittime di FDI

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