Nella Striscia di Gaza vige il cessate il fuoco e la tregua concordata fra Hamas e Israele con la spinta degli Stati Uniti e di altri mediatori internazionali, è realtà. Arrivare a questo non è stato facile per Gerusalemme perché alcuni settori della maggioranza di governo che sostiene il premier Benjamin Netanyahu, pur comprendendo il dramma degli ostaggi israeliani, ritengono che non si possa scendere a patti adesso con i terroristi di Hamas perché il rischio di dare loro il tempo e l’occasione di riarmarsi e riorganizzarsi, oltre che una nuova ed insperata legittimità, è troppo alto, dopo i feroci attacchi del 7 ottobre del 2023 e tutta la guerra durata sino a poche ore fa. Si è già dimesso dall’esecutivo Netanyahu, per protestare contro l’accordo sul cessate il fuoco a Gaza, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, del partito di destra Otzma Yehudit, e insieme a lui hanno abbandonato il governo anche i ministri Yitzhak Wasserlauf e Amichai Eliyahu, appartenenti alla medesima formazione politica di Ben-Gvir. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso, rimane al proprio posto per ora, ma ha lanciato seri avvertimenti al primo ministro Netanyahu dicendosi disposto a rovesciare il governo se l’IDF, (Israel Defense Forces), non occuperà Gaza con l’obiettivo di instaurarvi un esecutivo militare provvisorio quale unica soluzione per sconfiggere Hamas in modo definitivo. Il premier, dal canto suo, ha scelto la tregua principalmente per sbloccare la delicata vicenda degli ostaggi civili, cittadini dello Stato di Israele, ancora nelle mani dei terroristi. Sono state esercitate numerose e comprensibili pressioni sia, anzitutto, da parte delle famiglie dei malcapitati che da oltreoceano, (tanto l’Amministrazione uscente di Joe Biden quanto quella entrante di Donald Trump hanno entrambe voluto questa tregua). Sono state subito liberate da Hamas tre donne, Romi, Emily e Doron, e lo Stato ebraico, in base agli accordi previsti dalla tregua, si appresta a scarcerare novanta detenuti palestinesi. Si andrà avanti, se l’equilibrio non privo di fragilità dell’intesa riuscirà a reggere, per più settimane con scambi di palestinesi arrestati da Israele con gli ostaggi israeliani rinchiusi a Gaza fino alla completa liberazione di tutti i rapiti da Hamas durante le incursioni terroristiche del 7 ottobre del 2023. Sapere che gli ostaggi inizino a vedere la fatidica luce in fondo al tunnel è motivo di innegabile gioia, e, checché ne dicano i suoi più accaniti critici, il primo ad essere felice è proprio Benjamin Netanyahu che è stato pressato a livello politico e mediatico per la questione drammatica dei rapiti. Israele ha scelto ora la tregua probabilmente perché si trova davanti a dei nemici che hanno subìto proprio negli ultimi mesi un evidente indebolimento e fanno un po’ meno paura. Al netto delle interpretazioni delle comari del giornalismo sinistrato de noantri come, per esempio, Massimo Giannini, le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza e al confine con il Libano, oltre a determinare una reazione inevitabile agli attacchi sanguinari del 7 ottobre, sono state utilissime a decapitare i vertici di Hamas e di Hezbollah. L’Iran, sponsor riconosciuto di entrambe le organizzazioni terroristiche, ha tentato di minacciare e attaccare il territorio israeliano, ma le sue velleità sono state in gran parte neutralizzate dalla contraerea ebraica, ed inoltre, gli Ayatollah hanno visto ridimensionarsi la loro eterna aspirazione al ruolo di potenza regionale a causa del mutamento di regime in Siria. Hamas, al contrario di quanto scrivono i giornalisti mancini, che vorrebbero rendere credibile la loro vulgata della guerra personale di Netanyahu, sanguinosa e poi inutile alla fine, non è più la stessa di prima, è disorientata, meno armata e priva di figure trainanti e carismatiche, ma certo, c’è ancora purtroppo e bisogna persino stringere accordi con essa. Le perplessità dei partiti a destra del Likud, lo schieramento conservatore di Bibi Netanyahu, non sono solo frutto di fanatismi magari speculari a quelli dell’integralismo islamico, tuttavia, si può comprendere come la finora mancata distruzione totale di Hamas sia dipesa dall’esigenza di proteggere gli ostaggi. Deve essere comunque certo l’impegno mirato a 360° gradi ad impedire il ritorno al governo della Striscia degli eredi di Ismail Haniyeh e Yahia Sinwar, ed un loro progressivo riarmo, altrimenti sì, quanto fatto da Israele in termini militari sino a questo momento diventerebbe inutile. Antony Blinken, Segretario di Stato USA uscente, e Joe Biden hanno assicurato che Hamas non tornerà più al comando di Gaza. La nuova Amministrazione americana di Donald Trump, che si insedia proprio oggi alla Casa Bianca, sarà ancora più determinata dei predecessori democrats nella lotta al terrorismo islamico e nella difesa della sicurezza di Israele, vista la linearità trumpiana circa Gerusalemme mai inficiata da sbavature. Semmai, il presidente Trump, autore degli Accordi di Abramo, riprenderà, insieme a Netanyahu, il dialogo interrotto con le monarchie sunnite del Golfo Persico, inclusa l’Arabia Saudita, per fare tornare di attualità l’essenza di quel formidabile accordo siglato nel 2020, ovvero, la distensione fra lo Stato ebraico e quella parte di mondo arabo che non persegue lo scontro di civiltà con le democrazie, e al fine di isolare ancor più l’Iran e i suoi vassalli terroristici. In merito al rischio di un ritorno di Hamas a Gaza, rincuorano la coerenza di Donald Trump nei confronti di Israele, (il presidente repubblicano intende eliminare le restrizioni applicate alle forniture di armi USA a Gerusalemme decise tempo fa da Biden), e il tenace realismo di Benjamin Netanyahu, il quale, ben sapendo di avere a che fare con terroristi sui quali è difficile riporre fiducia, assicura che una minima violazione della tregua da parte di Hamas comporterebbe l’immediata ripresa del conflitto militare.