E adesso? La logica – come ha notato Ulderico De Laurentiis su queste colonne – dice chiaramente: alleanza sovranista ed identitaria per ottenere una maggioranza schiacciante, sulla carta qualcosa che già adesso vale il 45-46%. Un’intesa generazionale sì ma tutta politica fra Lega e Fratelli d’Italia quindi, con un eventuale ruolo ancora tutto da definire per Giovanni Toti e – anche se in queste condizioni sembra remota come opzione – per ciò che deciderà di “essere” Forza Italia; ma comunque un baricentro tutto appannaggio dei due “quarantenni” che dal marzo del 2018 rappresentano gli interpreti più genuini – e premiati – dello zeitgeist identitario e nazionale che ha proprio in Italia il suo laboratorio più avanzato.
Ne è convinta Giorgia Meloni: «Dalle elezioni può uscire oggi una stagione storica – ha spiegato nelle ore immediatamente successive alla rottura giallo-verde -: un governo autenticamente sovranista, capace di fare gli interessi del popolo italiano. Coeso, forte, capace di durare cinque anni». Già, lo dicono tutte le rilevazioni e lo indicano proprio le caratteristiche fisiologiche descritte dalla leader di FdI: organicità e capacità di decisione come addizione per garantire la durata di un governo realmente operativo per la Nazione.
Lo snodo è chiaro. Certo, governare non è solo un problema di numeri (che comunque in politica restano una questione centrale: il dispositivo che permette la traduzione del consenso in mandato) ma la lezione di quattordici mesi di parentesi giallo-verde è proprio questa: non basta sommare due (legittime) inquietudini per ottenere un «cambiamento» radicale. Il fallimento del contratto di governo segna proprio il (tra)passo di una visione positivista ed anti-realista della prassi in politica: l’idea che il governo della cosa pubblica possa procedere sostanzialmente da un patto parasociale o da un accordo a compartimenti stagni, del tipo «di questo me ne occupo io, quest’altra è faccenda tua».
L’implosione rovinosa della maggioranza Lega-5 Stelle sui dossier più delicati – quelli sviluppisti così come quelli legati al regime fiscale o alla grande questione giudiziaria, per non parlare dei temi eticamente sensibili – testimonia invece come la proposta politica necessita di un’elaborazione ex ante, sedimentata in un programma che intenda proporre una precisa visione di società, interloquendo con attori e blocchi sociali ben definiti per rispondere ad esigenze diffuse e non alle velleità delle minoranze organizzate, molte delle quali paranoiche e rissose.
Anche su questo punto è tornata ad insistere nelle ultime ore Meloni: «Noi le alleanze le facciamo prima del voto e non dopo, perché vogliamo essere chiari». Un’esortazione a Matteo Salvini certo, con quest’ultimo tentato (per il momento a parole) dalla corsa in solitaria, con il rischio di esporre se stesso e l’Italia «ai giochini di Palazzo» che già stanno iniziando a tramare alle sue spalle. Ma è un invito, questo di Meloni, che nasce dal riscontro oggettivo giunto in questo anno e mezzo da tutti i territori coinvolti dal voto: dalla più importanti città alle regioni, fino al dato delle Europee, il consenso al destra-centro, con Lega e FdI sugli scudi, è stato trasversale agli orizzonti geografici e all’entità delle sfide. Segno, questo, di un’indicazione popolare specifica, manifestata in tutte le circostanze possibili e che si indirizza a quella vocazione maggioritaria, genuina, che rappresenta il contraltare della restaurazione liturgica della peggiore Prima Repubblica in atto dai tempi del primo Nazareno, di cui il Rosatellum bis è il prodotto naturale.
È l’indicazione del resto che lo stesso Matteo Salvini – con punte di stupore e di imbarazzo personale – ha registrato pochi giorni fa durante la festa del Carroccio a Cervia, quando i suoi militanti hanno invocato a gran voce la rottura dell’asse con Di Maio e l’alleanza «con la Meloni». È una richiesta che viene “dal basso” dunque, un moto politico che aspetta solamente l’occasione per mettere l’Italia al centro dell’interesse pubblico: perché l’unica proposta sociale può arrivare solo dalla rimessa in moto comunitaria del corpo nazionale. Se il popolo, dunque, ha tutto il diritto di pretendere dai suoi interlocutori adesso questa occasione, è preciso dovere di costoro stringere quest’alleanza.