Che l’informazione sia il peggior nemico della reggenza di Putin è ormai un dato di fatto inoppugnabile ed acclarato: l’ultimo uomo caduto nella trappola della tarantola post-sovietica è il giornalista per l’edizione russa di “Forbes”, Sergehi Mingazov, il cui reato sarebbe stato quello di aver diffuso notizie “False” sul massacro di Bucha.
Ora sulla sua testa pende un’accusa da 10 anni di carcere, una pensa oltremodo severa per un divulgatore di notizie, che peraltro sarebbero state contestate attualmente senza una valida alternativa: in effetti, gli eventi di Bucha, secondo la Presidenza Putin, condita dai suoi più fedeli oligarchi, sarebbero soltanto una falsità.
Ecco di nuovo il ritorno al negazionismo storico, cavallo di battaglia di quelle tirannie che esistono davvero, le quali non hanno remore a definirsi anti-occidentali e plausibilmente anche anti-europee.
In merito all’evento in questione, non resta che pensare sonoramente “C’era da aspettarselo!”, chissà se il Cremlino, i giudici o chiunque sarà incaricato di seguire il caso in futuro sarà incaricato di seguire il caso, riuscirà a darci una spiegazione sui crimini di guerra commessi dall’esercito russo.
Ottenere finalmente il riconoscimento di azioni vergognose nei confronti di un popolo aggredito, è da sempre un tassello mancante per la Russia, che in passato fu il teatro e la matrice di invasioni che misero in ginocchio l’Europa e non solo.
Questo controllo mediatico capillare non fa altro che avvicinare il modello putiniano alla gestione interna utilizzata dalla Repubblica Popolare cinese, da tempo “contro la guerra”, ma piuttosto miope nel riconoscere e condannare certi avvenimenti.
Il regime oligarchico eurasiatico non fa altro che rafforzare i forti dubbi sulla libertà di stampa, ora come mai in ginocchio a causa delle forti pressioni governative, le quali non cessano nemmeno un istante di proibire la diffusione di notizie scomode.
Una domanda sorge però spontanea: come mai, se il massacro di Bucha è soltanto una menzogna, nessuna prova contraria all’accaduto è stata ancora mostrata dal Cremlino? Come mai nessun giornale extra-continentale autorevole ha supposto una valida antitesi sugli avvenimenti? Domande retoriche ovviamente, visto e considerato che ora come ora, dire la verità oltre che essere un atto rivoluzionario, include uno scotto da pagare con la libertà o col sangue in quel di Mosca.
Nel frattempo in Europa c’è chi ha deciso di darci lezioni sul pacifismo e sulla diplomazia senza aver trovato una reale soluzione per risolvere il conflitto in corso, mentre la scia di sangue che sta macchiando le vie delle città russe ed ucraine continua imperterrita per la sua strada.
Sarebbe grandioso ottenere finalmente un “cessate il fuoco”, ma è piuttosto improbabile che questa arrivi come una manna dal cielo: ogni tanto viene quasi in mente che l’impronta della pace sia in realtà una buona scusa per disinteressarsi completamente di ciò che accade intorno a noi. Qualcuno magari pensa che alcuni conflitti, essendo lontani da noi, non ci riguardino da vicino, forse non abbastanza coscienti che in passato, questo genere di mentalità, non ha portato altro che la legittimazione di un desiderio espansionista su larga scala nel secolo scorso.
Quanto al giornalista recluso, c’è da essere quasi completamente certi che non sarà l’ultimo, a meno che le manie di grandezza del Cremlino non riconoscano i propri limiti: proprio così, per quanto la censura possa rivelarsi un archetipo utile, prima o poi la verità tornerà a galleggiare nei libri di storia.