“Il Governo dei migliori incapaci”

L’estate sta finendo e si porta via, oltre agli amori estivi, la speranza dei pasdran draghisti di raggranellare un risultato diverso dal mediocre, tendente disastroso. Alla fine, il premio più importante ottenuto da Draghi sono stati gli Europei, i Maneskin e le medaglie olimpiche. Ma solo chi è in mala fede può attribuire al governo, peraltro entrato in carica quando allenatori e squadre si erano già definite, un merito nelle vittorie sportive: neanche i regimi autoritari si spingevano a tanto. Quanto ai Maneskin, vabbè…

Gasato da Mancini e da Jacobs, convinto di essere un concentrato di potenza e di velocità, e in ciò aiutato dal conformismo mediatico più totalizzante dagli anni Trenta, il governo è quindi scivolato miseramente sul principio di competenza.

Come quella del suo dante causa Biden, che in teoria doveva avere capacità, diversamente da Trump, e esperienza, perché in politica dal Mesozoico, anche la competenza del governo Draghi e dei suoi ministri è più che altro un mito. Eppure è stato o necessario a convincere chi non voleva entrare nel governo a premere parte, mentre tutti ricordano che la macchina propagandistica, il tele giornale unico, aveva coniato pure la formula del “governo dei
migliori”.

Il problema è che la competenza in politica non si sa bene cosa sia. Non può essere competenza tecnica applicata: chi pensa questo è un cretino, come lo chiamava Benedetto Croce, visto che già ai suoi tempi c’era chi vagheggiava di predominio dei tecnici. Ma non può essere solo esperienza: il disastro Biden, che non si può certo dire privo di tale
capitale, sta li a dimostrarlo.

Più che la competenza, conta in politica la visione: la capacità di possedere una idea di paese e di metterla in pratica. Ed è qui che il governo dei cosiddetti migliori rivela tutta la fragilità. Non detiene una idea di paese e non può per due semplici ragioni, la prima che il governo è legittimato parlamentarmente ma non democraticamente, la seconda è che un esecutivo in cui cozzano tre, se non quattro idee confliggenti di paese, ognuna propria dei partiti che lo compongono. Draghi non media, tace.

Questo carattere spiega a nostro avviso i due più recenti disastri dell’esecutivo, e proprio sul terreno propriamente politico, quello degli affari esteri e quello degli affari interni, guidati da ministri che non avrebbero dovuto essere riconfermati ma che per il loro bilancio sarebbe stati cacciati in malo modo in qualsiasi gabinetto straniero, per quanto scalcagnato.

Lamorgese è la dimostrazione di quanto scrivevamo sulla competenza. Da prefetto e tecnico dovrebbe possederne, eppure verrà ricordato come uno dei peggiori ministri dell’interno della storia, proprio per carenza di visione politica. Solo questo spiega l’ultimo scivolone, sul rave viterbese, una illegalità patente tollerata prima e poi risolta attraverso quello che “La verità” ha chiamato “trattativa Stato-fattoni” (nel senso di tossici). Tanto più che il ministro, appena varato il green pass, aveva discettato su quali manifestazioni fossero legittime e quali no, poi aveva minacciato il pugno duro contro commercianti e semplici cittadini. Per non citare il fallimentare bilancio sul piano dell’immigrazione. In nessun paese serio, veramente, la sua presenza sarebbe ancora tollerata in un posto cosi importante.

Il ministro degli esteri ha dato invece il meglio di sé sulla crisi afgana. Non solo è rimasto in spiaggia ma ha rilasciato un’intervista in cui chiedeva “clemenza” ai talebani. E qui veniamo al nodo dolente. Di Maio è 5 stelle e questo partito, già il più filo cinese del mondo occidentale, è anche quello più decisamente filo talebano: e a pronunciare parole di miele verso il regime dei tagliagole islamisti sono stati proprio i principali capi 5 stelle, Conte e Grillo, sia pure con toni diversi. Parole che non dispiaceranno in via Bruxelles a Roma, dove ha sede l’ambasciata cinese.

In qualsiasi paese civile che il primo partito (in parlamento ovvio, non nel paese) e il pilastro numerico del governo si esprima cosi, porrebbe un problema. Non lo pone a Draghi, non lo pone neppure a Letta alleato di Conte. Il segretario Pd pensa che i talebani saranno pure moderati come dice il suo amico avvocato, ma vuole comunque accogliere tutti i profughi che fuggono: segno che evidentemente i talebani non sono cosi buoni, e soprattutto che le coop e le ong non sono sazie della marea umana che già si riversa sulle coste, con il plauso della felpa di Letta.

In tutto questo, lasciatemelo scrivere, il contributo del cosiddetto centrodestra di governo continua ad essere modesto. Ma questo era prevedibile. Come disse subito Giorgia Meloni, nel momento in cui i numeri, l’establishment, i media, sostengono la sinistra, se entri nel governo con il Ciclope non puoi che finire divorato da lui, anche se orbo.

Marco Gervasoni

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Marco Gervasoni
Marco Gervasoni
Marco Gervasoni (Milano, 1968) è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise, editorialista de “Il Giornale”, membro del Comitato scientifico della Fondazione Fare Futuro. Autore di numerose monografie, ha da ultimo curato l’Edizione italiana delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia di Edmund Burke (Giubilei Regnani) e lavora a un libro sul conservatorismo.

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