Il governo del cambiamento non cambia, nel senso che continua a non cambiare niente, anche sul fronte della politica estera e di sicurezza, dove l’Italia prosegue nella sua deriva filo-islamista.
Nella Relazione sulla partecipazione dell’Italia all’UE presentata al Parlamento, l’esecutivo Conte intende “continuare ad assicurare sostegno al dialogo tra l’Unione Europea e la Turchia”, definendo quest’ultima “un partner strategico in molti ambiti” e l’allargamento della membership europea ad Ankara uno “strumento politico essenziale per garantire il consolidamento della democrazia”.
Si tratta, a ben vedere, della posizione tradizionale della diplomazia italiana in merito all’ingresso della Turchia nell’UE, una posizione che ha già mostrato di essere basata su presupposti errati. È stato infatti l’insistere sul rispetto dei cosiddetti standard democratici comunitari a consentire a Erdogan di smantellare la struttura laica su cui Ataturk aveva fondato la Repubblica turca, rimpiazzando i militari con l’establishment sì civile ma islamista espresso dal suo partito.
Ora che il danno è stato fatto, si vorrebbe anche consentire a Erdogan di mettere le mani sulle istituzioni europee. Immaginate il Parlamento con deputati islamisti turchi legati alla Fratellanza Musulmana? Non si tratta di fantasia, è quello che accadrebbe se la Turchia divenisse un paese membro dell’UE. Perché dunque il governo non è intervenuto per cambiare linea diplomatica?
Francia e Germania hanno posto il loro veto a un simile scenario e i negoziati sempre in ballo sull’ingresso nell’UE sono stati finora una leva tattica utilizzata nel complesso intreccio che caratterizza le loro relazioni bilaterali con Ankara.
Tuttavia, considerando la crescente arrendevolezza europea nei confronti dell’asse islamista composto da Qatar, Turchia, e Fratelli Musulmani, allargato all’Iran khomeinista, non ci sono garanzie che quel veto un giorno non cadrà come da oggi auspica ufficialmente anche l’attuale esecutivo.
L’Italia in realtà sembra già operare in vista del realizzarsi di tale prospettiva. Non è infatti passato molto tempo dallo scorso 19 novembre, giorno della famosa cena al Quirinale in onore degli emiri del Qatar, al cui servizio si è posta la quasi totalità della classe dirigente, compresi quei ministri che in precedenza avevano giurato, o spergiurato, di voler contrastare il regime di Doha a causa delle sue politiche di finanziamento del terrorismo. Salvo poi intraprendere, una volta al governo, inopportuni viaggi d’affari proprio a Doha, per di più in vesti istituzionali, e farsi portavoce della propaganda dei suddetti emiri, definendo il Qatar un esempio di moderazione dopo averlo ripetutamente bollato come estremista.
È interessante notare la crescente divergenza della politica estera italiana con quella del Vaticano. La visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, e la firma del documento sulla Fraternità Umana con l’Imam di Al Azhar, Egitto, segnala una netta scelta di campo operata dalla Santa Sede a favore del mondo arabo moderato. Mentre l’Italia, o meglio la sua classe dirigente, pensa forse che porsi sotto la protezione del fronte islamista potrà valergli la salvezza, o soprattutto lauti guadagni nell’immediato.
Ma sottomettersi al Qatar, alla Turchia e ai Fratelli Musulmani non è un buon affare. Significa aprire le porte del paese all’avanzata dell’agenda islamista, che già si avvale per fare proselitismo e reclutare nuovi adepti di migliaia di moschee (principalmente illegali), pseudo-centri culturali e di aggregazione sparsi da nord a sud nella penisola. Perché tanta indifferenza, o compiacenza, verso questo grave fenomeno da parte dell’attuale esecutivo?
Per alcuni tra i suoi massimi esponenti si tratta di un vero e proprio tradimento delle aspettative degli elettori ed è lecito attendersi una spiegazione soddisfacente del perché non siano stati effettuati cambiamenti in merito alla posizione dell’Italia sull’ingresso della Turchia nell’UE. Attendiamo fiduciosi.