“Democracy dies in darkness”, motteggia il Washington Post. “La democrazia muore nell’oscurità”. Più espliciti sono i Reporters sans Frontières (RFS), autori dell’annuale “Indice della libertà di stampa nel mondo”: “il giornalismo è il vaccino contro la disinformazione”.
Siamo soliti lamentarci noialtri, eredi del logos greco e della libertas romana, dello scarso pluralismo, di presunti bavagli, lacci e lacciuoli che impedirebbero all’opinione pubblica di acquisire liberamente le informazioni che investono la sfera dei diritti individuali come quella dei doveri sociali, dalla salute pubblica al mondo del lavoro, dalle tasse alla burocrazia, dalle politiche interne e a quelle internazionali, dalla crisi energetica ai problemi migratori, ma anche lo sport, la cultura e il tempo libero. Se i vecchi mezzi di comunicazione, solo qualche decennio fa, erano particolarmente soggetti agli interessi ideologici, politici o economici dell’editore di turno, le nuove tecnologie e la rivoluzione del web hanno sicuramente ridotto, pur senza eliminarlo, il pericolo delle manipolazioni. Nel mare aperto dei nuovi spazi e modi dell’informazione, sono “aumentate” anche la libertà di parola e la responsabilità di scrivere, dire e raccontare i fatti. Ma se nel tanto vituperato Occidente il diritto a una informazione libera, plurale e accessibile è riconosciuto da ogni costituzione e di fatto è presente in ogni ordinamento, non altrettanto può dirsi di altre aree del mondo.
Scorrendo la classifica di RFS ci si accorge subito che i virtuosi sono gli Europei del Nord. Il podio è un dominio scandinavo: la Norvegia è al primo posto, a seguire Finlandia e Svezia. Quarta è la Danimarca, quinta la Costa Rica, che apre una parentesi americana nell’egemonia europea delle prime dieci posizioni. Tra i grandi Paesi, gli Stati Uniti sono al 44° posto, preceduti dalla Germania al 13° posto, dalla Spagna al 29°, da Regno Unito e Francia, rispettivamente al 33° e 34° posto, e dalla nostra Italia, al 41° posto.
L’edizione 2021 del World Press Freedom Index di RSF vede nelle ultime posizioni Paesi come l’Arabia Saudita, Cuba, l’Iran, l’Eritrea (ultimo posto), la Corea del Nord (penultima) e soprattutto la Cina (quartultima).
L’Indice è costruito secondo una rigorosa metodologia che combina sette indicatori fondamentali: pluralismo, indipendenza dei mezzi di comunicazione, ambiente e autocensura, quadro legale, trasparenza, infrastruttura e il numero di aggressioni subite dai giornalisti. Ogni indicatore riceve un punteggio, da cui scaturisce l’indice complessivo.
Dicevamo la Cina, soprattutto. L’indagine di RFS dedica al gigante d’Oriente un documento ad hoc, intitolato “Il grande balzo indietro del giornalismo in Cina”. Ottantadue pagine di statistiche e analisi puntuali, il Rapporto è una fotografia impietosa del sistema della repressione cinese. Pubblicato all’inizio di dicembre questo documento precede di un anno il 20° Congresso del Partito Comunista cinese, previsto per la fine del 2022. “Se la Cina continua in questa direzione – ha spiegato il segretario generale di RSF Christophe Deloire – i cittadini cinesi rischiano di perdere la speranza di vedere mai instaurata la libertà di stampa nel loro Paese, e il regime di Pechino potrebbe riuscire a far rispettare il suo anti-modello anche in altri Paesi.” Già, un “anti-modello”, una macchina da guerra che funziona implacabilmente in ogni ambito di interesse strategico per il regime di Xi Jinping. Lo abbiamo visto con la vicenda pandemica e la genesi del Covid 19: saranno mai stati attendibili i dati epidemiologici comunicati dalla Repubblica Popolare cinese? E poi Taiwan, lo Xinjang e il Tibet, i teatri per eccellenza della dissidenza anticomunista; e ancora Hong Kong, regione amministrativa speciale tornata sotto la sovranità cinese nel 1997, dopo il lungo dominio coloniale britannico, e che dal maggio 2020 è sottoposta alla rigida “legge sulla sicurezza nazionale” che tante proteste ha scatenato tra residenti e attivisti per i diritti umani. “Volutamente vaga e onnicomprensiva” – dicono gli esperti di RFS – la legge sulla sicurezza nazionale cinese del 2020 è servita da pretesto per l’arresto di giornalisti e sostenitori della libertà di stampa, tra cui il fondatore di Apple Daily, Jimmy Lai. L’opinione pubblica di Hong Kong è ostaggio di una campagna di censura gestita da Carrie Lam, donna a capo dell’esecutivo che, fedele a Pechino, ha oscurato tutti i media dell’opposizione. In Cina sono oggi 127 i giornalisti detenuti e sottoposti al carcere duro per aver pubblicato notizie proibite o aver trattato argomenti tabù: Taiwan, Tibet, Covid 19, dignità della donna, corruzione. Anche i corrispondenti esteri sono soggetti al ricatto dei visti, alla sorveglianza e alle intimidazioni. Alcuni sono stati arrestati con l’accusa di spionaggio. Altri sono stati costretti a lasciare il territorio cinese.
La propaganda del “Dragone” è tentacolare e controlla ogni spazio di espressione e parola, all’interno e all’estero. Le missioni diplomatiche cinesi sono spesso una forma di pressione anche sulle democrazie occidentali. L’ambasciatore cinese a Parigi Lu Shaye, noto per insulti e minacce a giornalisti, è stato accusato dal ministro degli esteri francese di violare la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
In Italia ha suscitato un certo clamore il caso degli “istituti Confucio” che, direttamente alle dipendenze dell’Ufficio di Propaganda della Repubblica Popolare cinese, hanno avviato corsi linguistici di mandarino e lezioni di storia e geografia, con tanto di mappa della “Grande Cina”, in atenei e addirittura in scuole superiori e medie. Queste attività sono finanziate direttamente da Pechino e perseguono la strategia del “soft power”: “dare una versione positiva della narrativa cinese e comunicare meglio il messaggio cinese al mondo”, come disse Xi Jinping all’inizio del suo mandato. In sostanza, si finanziano progetti di ricerca e attività culturali come veri e propri cavalli di Troia della propaganda cinese: si esportano i valori della Cina per importare silenzio o disinteresse sulla violazione dei diritti umani e la repressione del dissenso. La strategia del soft power ha dato qualche frutto, ma l’opacità degli istituti Confucio è venuta al pettine e ha portato alla chiusura di decine di centri in America e in Europa. “Timeo Danaos et dona ferentes”, fa dire Virgilio al troiano Laocoonte, persuaso che il famoso cavallo donato dai Greci contenga un pericolo. Saranno i Cinesi per l’Occidente quel che fu la “stirpe di Danao” per Troia?