Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia, è un luogo intimamente legato con la storia patria a far tempo dal 1882, allorché vi fu catturato Guglielmo Oberdan, poi impiccato a Trieste per aver progettato di attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe Asburgo. A pochi chilometri di distanza sorge l’imponente scalinata di Redipuglia, il più grande Sacrario militare in Italia in cui giacciono i resti di circa 100.000 italiani caduti nelle terrificanti battaglie dell’Isonzo combattute dall’allora Regio Esercito contro le truppe austro-ungariche tra il giugno 1915 e l’ottobre 1917. Ancora da Ronchi partì nella notte tra l’11 ed il 12 settembre 1919 la spedizione di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari, appunto, volta a risolvere in maniera “garibaldina” la situazione di Fiume, che, nonostante il plebiscito a favore dell’Italia tenutosi il 30 ottobre 1918, sembrava destinata a venire incorporata nel neonato Regno dei Serbi, Sloveni e Croati oppure ad essere eretta a città-stato sotto l’egida della Società delle Nazioni, analogamente a quanto avvenne a Danzica.
Taluni continuano a considerare questo evento prodromico alla nascita del fascismo, ma la storiografia più aggiornata sta approfondendo le tante sfaccettature che hanno caratterizzato l’ultima avventura del Vate d’Italia: il suo spirito libertario, la Carta del Carnaro, la Lega dei Popoli Oppressi, il progetto di riforma dell’esercito proposto dall’ardito trentino Giuseppe Piffer…
D’altro canto la dialettica Mussolini-d’Annunzio fu caratterizzata da alti e bassi e pesantissima risultò la lettera che il Comandante scrisse al futuro Duce pochi giorni dopo aver preso possesso del capoluogo del Carnaro, accusando violentemente l’interlocutore di inerzia e di incapacità. Il direttore del Popolo d’Italia non si sarebbe riscattato nemmeno in occasione del Natale di Sangue che avrebbe posto fine all’avventura dannunziana: l’opportunismo politico del figlio del fabbro capì che la causa fiumana era ormai perdente, sicché i primi nuclei fascisti furono trattenuti dal portare soccorso o dal creare diversivi in Italia. Mentre il poeta-soldato si avviava all’esilio dorato del Vittoriale degli Italiani sul lago di Garda, il futuro capo di governo s’impadroniva dell’armamentario retorico e simbolico che per oltre un anno aveva brillato sulle rive del Carnaro. Nella riconversione in orbace dei comizi dal balcone, del contatto diretto con la massa, della rivendicazione del ruolo di interlocutore privilegiato dei combattenti defraudati dai premi della vittoria, lo statista di Predappio si dimenticò per strada la carica libertaria che scorreva nei comizi dannunziani.
Il corporativismo che il fascismo di fatto non riuscì mai a realizzare compiutamente era solo apparentemente affine a quello che il sindacalista Alceste De Ambris aveva forgiato nella Carta del Carnaro, documento costituzionale dagli altissimi contenuti di libertà e di eguaglianza, che poi d’Annunzio avrebbe decorato di lirismi e di formule auliche.
Accomunati dal fatto di essere stati individuati da Lenin come i possibili condottieri di una rivoluzione socialista italiana, Mussolini e d’Annunzio tuttavia non riuscirono mai a stabilire un rapporto coerente e proficuo con la sinistra italiana, anche se gli sforzi maggiori per una sinergia provennero dal governo della città adriatica. L’approvvigionamento di armi e munizioni per le prime esigenze della guarnigione dannunziana giunse grazie al dirottamento di un piroscafo carico di armi per le armate “bianche” lealiste nei confronti dello Zar che ancora si opponevano all’Armata Rossa in Estremo Oriente e d’Annunzio avrebbe rivendicato tale azione nel contesto di una sfida a quel mondo che le Grandi Potenze andavano disegnando alla Conferenza di Pace. A tal proposito, nei primi mesi del 1920 furono numerosi i contatti che la Lega dei Popoli Oppressi, costituitasi per iniziativa di alcuni collaboratori del poeta-soldato (il belga Leon Kochnitzky, Eugenio Coselschi, Ludovico Toeplitz, Giovanni Bonmartini e lo statunitense Henry Furst), instaurò con quanti si sentivano traditi dalle decisioni dei vincitori della Prima Guerra Mondiale: la vittoria mutilata italiana aveva il suo corrispettivo nelle violate promesse di autonomia fatte da Francia e Inghilterra nelle colonie in cambio di arruolamenti con cui rimpolpare le fila degli eserciti metropolitani, i confini che avrebbero lasciato migliaia di connazionali fuori d’Italia erano analoghi a quelli che pesantemente colpivano gli Stati sconfitti, creando minoranze etniche prive di qualsivoglia tutela giuridica internazionale.
Il futurista Mario Carli vide nella Reggenza italiana del Carnaro un faro che illuminava il buio dell’Europa di allora e che si accoppiava alla perfezione con il faro che brillava da Mosca: Lenin e d’Annunzio apparivano come leader carismatici balzati fuori dalle temperie della guerra e adesso capaci di dirigere le masse verso un futuro migliore e d’altro canto già alcuni mesi or sono abbiamo dedicato un approfondimento alle aspirazioni comuniste di parte dei seguaci del Vate giunti a Fiume da tutto il mondo. L’entourage dannunziano non cercò solo contatti con lo Stato dei Soviet, ma espresse anche solidarietà ai comunisti ungheresi vittima del terrore bianco scatenato dall’ammiraglio Horthy, reggente di uno Stato che peraltro rivendicava Fiume. La sinistra italiana a parte rare eccezioni (Bombacci, Malatesta ed in una certa qual misura anche se tardivamente Gramsci) si disinteressò di tali prese di posizione, le quali finirono per scontentare la componente nazionalista che aveva seguito il Vate in un’impresa che per i suoi toni volontaristici e di trasgressione nei confronti delle gerarchie militari si poneva in continuità con lo spontaneismo delle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi.
Se molti gerarchi fascisti e figure di primo piano del regime mussoliniano aderirono all’esperienza fiumana (il già ricordato Coselschi, Ettore Muti, Giovanni Giuriati, Fulvio Balisti, Renato Ricci ed il fiumano Giovanni Host-Venturi), tra i Legionari di Ronchi erano presenti pure futuri partigiani: il mazziniano Ercole Miani, in seguito elemento di spicco della resistenza patriottica triestina, aiutò l’audace Guido Keller a prelevare dall’autoparco di Palmanova gli autocarri con cui trasportare i volontari pronti a marciare su Fiume. Altrettanto legionario e successivamente partigiano fu il triestino Gabriele Foschiatti, già irredentista, volontario nella Grande Guerra ed ispirato da ideali mazziniani: come lui numerosi altri giovani giuliani parteciparono all’impresa fiumana, si tennero alla larga dal regime mussoliniano e dopo l’8 settembre scelsero la lotta antifascista.
Il fiumanesimo, come rilevato dallo storico Emilio Gentile e ribadito da Claudia Salaris, fu un fenomeno molto complesso e che non può essere valutato per quel che poi avvenne in Italia in seguito alla Marcia su Roma: i Legionari di d’Annunzio destarono scandalo tanto presso i nazionalisti che non condividevano le loro aperture al comunismo sovietico quanto presso la sinistra italiana che non ne comprendeva il nazionalismo, però era stato forgiato un movimento capace di coniugare patriottismo e socialismo rivolgendosi ai popoli in lotta con il medesimo spirito nel resto del mondo.