Non si meraviglierà nessuno se tra gli eventi principali di questo 2024 ai primissimi posti troveremo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali degli Stati Uniti. Alzi la mano, infatti, chi dopo gli eventi di Capitol Hill avrebbe scommesso un euro o un dollaro, fate un po’ voi, sulla sua vittoria. Invece, questo milionario così atipico ma perfettamente capace di ascoltare e rappresentare l’America profonda ha rivinto tornando nuovamente alla Casa Bianca. Questa però è soltanto una parte della questione che qui ci interessa affrontare. Il tema non è tanto la vittoria, pur inattesa che sia, quanto quello che ha significato l’arrivo di Trump sulla scena mondiale. In una sola parola, il sovranismo.
Quattro anni fa la sconfitta del tycoon venne salutata, con più di qualche sospiro di sollievo, come la fine del sovranismo stesso e il suo fallimento. Volendo seguire questo schema, per la verità un po’ forzato visto che i fenomeni storici non si aprono e non si chiudono come se fossero delle porte, dovremmo ammettere che in tanti allora si erano sbagliati, che il sovranismo è ben lontano dall’essere morto e che, anzi, è più vivo che mai. Lo dice la chiara e netta vittoria di Trump negli Usa e dei molti partiti e schieramenti che si collocano in quella stessa porzione di agone politico.
Riposti quindi i paramenti funebri cerchiamo di vederci più chiaro. Il sovranismo non è stato un incidente della storia, come invece avrebbe sperato la sinistra che come al solito demonizza gli ‘ismi’ che non gli piacciono. Rappresenta la evidente reazione al fallimento della globalizzazione e l’effetto di quello spostamento verso il basso del ceto medio, come disse Trump nel suo primo discorso di insediamento. Quel ceto che ha sempre garantito la stabilità e la tenuta dell’ordine sociale e politico, e che ormai minacciato da due emergenze, quella sociale e quella economica, e scottato da una globalizzazione che ha approfondito il solco tra ricchi e poveri (i primi sono diventati ancora più ricchi e i secondi ancora più poveri) ha deciso che l’unico modo di salvarsi è di recuperare la propria identità. Tornare a riscoprire le proprie radici, l’orgoglio della propria identità edificata su una storia comune e su una cultura condivisa, contro quella società senza confini, nella quale avevano fatto credere che tutti potessero aspirare a una prosperità più ampia e diffusa.
E sta proprio qui il punto, il salto di qualità che si deve fare nell’analisi e nel giudizio del sovranismo visto come recupero di quei valori fondanti di una società, anzi di un popolo. Non è un caso se la sovranità la troviamo accanto al popolo e al territorio quali elementi costitutivi di quello che è lo Stato. Tutti e tre essenziali alla sua nascita e al suo esistere.
Il sovranismo quindi va visto in un’accezione molto più ampia, ben al di là dei limiti angusti nei quali la sinistra e una certa stampa lo ha costretto. Altro che semplice difesa di confini con muri e porti chiusi, ma piuttosto recupero e riscoperta di quei valori ‘naturali’ e originari che sono alla base di una comunità. Perché così come la sovranità è un elemento costitutivo e originario dello Stato, così nella società richiamarsi alla sovranità significa riconnettersi a quei valori che la caratterizzano e la contraddistinguono.
Visto così il sovranismo ha un respiro di gran lunga più ampio, una sua autorevolezza e dignità. Non la visione macchiettista data finora, ma piuttosto il frutto maturo del fallimento della globalizzazione; del superamento sul piano ideologico del pensiero woke e della cancel culture, manifestazioni di quella società globale che non tollera le identità. Sovranismo, quindi, non tanto come semplice rivendicazione di terra e confini.
La sfida sovranista, che la vittoria di Trump ripropone come attuale, sta così nel tentativo di recuperare e di difendere i valori di una comunità rispetto a una visione di società, quella globale, che ha dimostrato di essere fallimentare. Fallimentare come quella società multiculturale dove le diverse culture avrebbero dovuto convivere e trovare un comune futuro di ricchezza e prosperità, e che invece è esplosa miseramente. Di contro però non significa, come qualcuno ha preconizzato, che si rischia il ritorno necessariamente a un’epoca di egoismi nazionali, perché la difesa dei confini valoriali non è chiusura ma esaltazione di una comunità pur nella diversità di individui.
Sta qui il senso della sfida sovrana, che oggi la vittoria di Trump ripropone e che solo apparentemente sembrava perduta.