Negli Stati Uniti, la presidenza di Joe Biden si avvicina al capolinea, un periodo di transizione contraddistinto anche in passato da una certa stabilità e continuità nelle relazioni internazionali. Senza scossoni. Tuttavia, un fenomeno curioso e senza precedenti sta emergendo: molti leader mondiali sembrano più interessati a parlare con Donald Trump, piuttosto che con l’attuale inquilino della Casa Bianca.
La politica estera è tradizionalmente un dominio esclusivo del presidente in carica. Joe Biden ha cercato di riparare, a detta dei democratici, le relazioni danneggiate durante l’amministrazione Trump, ripristinando alleanze storiche e promuovendo una visione di cooperazione globale. Nonostante questi sforzi, alcuni leader mondiali continuano a rivolgere la loro attenzione a Trump.
Questo fenomeno è particolarmente evidente in alcuni paesi del Medio Oriente, in cui Trump ha mantenuto relazioni strette con leader come il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che incontrerà oggi nella sua tenuta di Mar a Lago. La firma degli Accordi di Abramo, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e diversi stati arabi, è uno dei successi che molti leader nella regione attribuiscono direttamente a Trump, e ciò potrebbe spiegare perché questi leader mantengano un canale aperto con lui. Qualche giorni fa un colloquio telefonico con il presidente ucraino Zelensky ha permesso a Trump di chiarire i suoi “piani” riguardo il conflitto iniziato da Putin nel febbraio 2022: “Metterò fine alla guerra”.
Anhe Xi Jinping conserverebbe un ottimo rapporto con il 45esimo presidente americano: dopo l’attentato subito, Trump ha parlato di una splendida lettera ricevuta dal leader cinese, segno di una sincera amicizia fra i due. E pare si stia lavorando ad un incontro…
Trump è noto per il suo approccio diretto e spesso non convenzionale alla diplomazia. Alcuni leader mondiali apprezzano il suo stile franco e la sua propensione a negoziare accordi bilaterali, bypassando le tradizionali istituzioni multilaterali che Biden invece sostiene. Questo approccio può essere visto come un’opportunità per ottenere vantaggi più immediati e tangibili.
Mentre la stampa americana e quella nostrana, gli opinionisti progressisti di tutto il mondo, nonché le celebrità di Hollywood sbavano per l’ascesa di Kamala Harris, nuova paladina della sinistra globalista, impegnata in queste ore a raccontarci con estrema solerzia quanto lei sia migliore di Donald Trump, mentre Joe Biden con estrema fatica si appresta ad assolvere gli ultimi mesi da uomo più potente al mondo, nonostante un’immagine fortemente danneggiata dal progredire dell’età, il tycoon di New York lavora già da presidente degli Stati Uniti.
Kamala Harris, infatti, dovrà convincere l’opinione pubblica e i grandi elettori americani dopo la modesta prova che ha dato di sé rivestendo il ruolo di vice di Biden, costellata una serie di insuccessi che hanno attirato critiche sia dai suoi oppositori sia da alcuni membri del suo stesso partito.
Uno dei principali insuccessi riguarda la gestione della crisi al confine con il Messico. Nonostante le sue promesse di affrontare le cause profonde dell’immigrazione, Harris è stata criticata per la mancanza di progressi concreti e per il modo in cui ha gestito la comunicazione sul tema, inclusa la sua reticenza a visitare il confine nei primi mesi della sua carica.
Sul fronte della politica interna, Harris ha avuto difficoltà a spingere avanti alcune delle principali iniziative legislative dell’amministrazione Biden, come la riforma del diritto di voto e il piano per le infrastrutture. Inoltre, il suo approccio alla comunicazione pubblica è stato talvolta giudicato inefficace, con discorsi e interviste che hanno lasciato spazio a interpretazioni negative.
Infine, la sua popolarità tra gli elettori è spesso risultata bassa, riflettendo una percezione di mancanza di impatto e leadership decisiva.
A livello di statura internazionale sicuramente Kamala Harris, in questo momento, non può competere con Trump, che pur essendo un personaggio divisivo, incarna perfettamente quello che vuole l’americano medio che abita non le metropoli, ma i veri Stati Uniti. In conseguenza di ciò è chiaro a tutti che i leader mondiali inseriscono come interlocutore anche Donald Trump.