Per mesi le femministe italiane hanno proposto la lotta al patriarcato, quel fenomeno che in Italia, tra gli italiani, non esiste più ma che, secondo il mondo progressista, produce ancora vittime di femminicidi. Il patriarcato, e non la viltà di un uomo, che dimentica il vero senso dell’amore, che non possiede e non umilia. Alla morte di Giulia Cecchettin, sembrava essersi risvegliato di sana pianta il mostro del patriarcato che in Italia, nella realtà dei fatti, è morto da circa quaranta anni. Per mesi le femministe hanno parlato di patriarcato ma ora che il patriarcato è tornato veramente a operare per opera delle ingerenze della cultura islamica che, stando ad oggi, è la più forte esportatrice del modello patriarcale nel mondo. Donne ricoperte da veli (se sono fortunate) e riposte come cose in scompartimenti a parte, sezioni separate in cui agire e pregare perché impure e pericolose potenziali guastatrici della purezza degli uomini. Le femministe progressiste, quelle che volevano la fine del patriarcato, non si esprimono sulle modalità di preghiera e di vita del mondo musulmano, nel rispetto dell’altrui cultura. Il solito cortocircuito: difendere le donne dal patriarcato (quello vero) o lasciare che restino un passo dietro agli uomini, anche letteralmente, perché la loro cultura così vuole? La risposta è semplice: rispettare, sì, le altre culture e le altre religioni, come sancito dalla nostra Costituzione, purché, ancora in rispetto del testo costituzionale, siano garantiti quei principi fondamentali che nessun ordinamento superiore, né tantomeno una cultura straniera, possono violare e distruggere.
Un passo dietro gli uomini
È passato un anno e mezzo da quando l’onorevole dem Serracchiani accusò Giorgia Meloni, per la prima volta seduta sullo scranno centrale della Camera, quello riservato al Presidente del Consiglio, di essere un passo dietro gli uomini. Un’accusa pensata male, partorita peggio e assolutamente mal direzionata: non si spiega il silenzio di quel mondo progressista che criticava Giorgia Meloni, ora, dinnanzi alle immagini provenienti da tutta Italia. I festeggiamenti per la fine del Ramadan infatti hanno acceso un’altra polemica, dopo il caso della scuola di Pioltello. Roma, Firenze, la stessa Pioltello: i fedeli musulmani si riuniscono per strada per pregare Allah, rivolti verso est, verso La Mecca, capitale del mondo islamico. Gli uomini avanti, le donne dietro, perché così disse il profeta: l’essere femminile non è degno di stare in mezzo agli uomini, rischia costantemente di contaminarli con la sua impurità. Per questo è messo in una stanza a parte. Non una novità, certo, ma che questo scempio venga messo in atto sul suolo nazionale, alla luce del sole, dovrebbe creare un po’ di vergogna. Le donne non sono neppure degne di guardare gli uomini: oltre al velo, la sezione di suolo a loro dedicata è recintata e ricoperta di teli che interrompono la visuale verso l’esterno. Chiuse in gabbia. Alla faccia del progressismo: l’islam, nella sua lettura più integralista del Corano, sguazza dentro il patriarcato come un pesciolino nel suo acquario.
Finta integrazione
La sinistra non si espone e, come avesse due fette di prosciutto sugli occhi, commenta i fatti evitando di citare i recinti riservati alle donne musulmane: “È la forza della nostra comunità fiorentina che è plurale e coesa. Tutte le comunità musulmane hanno diritto di pregare come quelle cristiane, ebraiche e tutte le altre. La presenza di attività legate alla cultura, alla religione è una grande ricchezza della nostra città, non dobbiamo dimenticarlo”: il commento del sindaco di Firenze Dario Nardella, che di fatto parla di inclusione, mentre Aboubakar Soumahoro ha annunciato di aver presentato una proposta di legge “per rendere festivo il giorno dopo la fine del Ramadan, la festa di Eid Al Fit”. Parla di “armonizzare le leggi del nostro Paesi con la realtà attuale e rinnovata”. Ma non una parola sulle donne “recintate”. Mondo progressista e femminista si nascondono, allora, dietro la classica spiegazione della donna islamica che volontariamente si abbandona alla sopraffazione dell’uomo, in nome di una sua cultura. Ma quale donna vorrebbe essere recintata, rinchiusa in casa, coperta da un velo e parificata a un oggetto? È lì, allora, che ancora incontra un senso la battaglia femminista, è lì che trova ancora applicazione quel fenomeno patriarcale che è retaggio della cultura orientale/islamica, e non certo di quella occidentale/cristiana.