Fabio Rampelli, militante del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale Italiano, figura di spicco della destra italiana, fondatore e deputato di Fratelli d’Italia, oggi vicepresidente della Camera, ha attraversato da protagonista l’evoluzione della destra fino ai nostri giorni. Una destra che è cambiata senza però perdere i suoi punti di riferimento, i suoi valori fondanti. Uno su tutti: la libertà.
Onorevole Rampelli, la destra per alcuni, distorti dall’ideologia, equivale a totalitarismo. Ma il MSI votò per la costituzione delle prime comunità europee, i giovani di destra festeggiarono la caduta del muro di Berlino e la rivoluzione ungherese. La destra è ed è sempre stata libertà?
Vero. Il MSI ebbe fin dal principio una chiara vocazione europea ed europeista. Così come è altrettanto vero che i giovani di destra festeggiarono la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Oltretutto, lo fecero con una manifestazione bella, goliardica, gioiosa: a piazza del Pantheon si costruì un muro di Berlino metaforico, di cartone, che poi fu abbattuto con una rincorsa di tutte le persone presenti, una vera festa popolare. Così come difendemmo, generazioni prima, la Rivoluzione ungherese che tentava di porre un argine all’invasione dell’Armata Rossa a Budapest e alla sottomissione della Mittel Europa alla dittatura comunista, mentre Giorgio Napolitano inneggiava ai carri sovietici. E potremmo dire la stessa cosa di Praga. Quindi, la destra ha sempre avuto la traiettoria della libertà. Però penso che sia giusto ricordare che così come esistevano, alla sinistra del PCI e del PSI, organizzazioni estremiste nelle idee e nei metodi d’azione, anche a destra c’erano movimenti con cui bisognava fare i conti: pochi ammettono che il MSI li fece, spesso pagandone le conseguenze, non si lasciò mai trascinare in posizioni radicali e antistoriche. Ricordo che, quando partecipavo a qualche manifestazione da quattordicenne, sentivo – la cosa mi infastidiva alquanto – alcuni slogan del tipo “Cile, Cile, Argentina: Italia come America Latina”. Erano i ‘duri’ che cercavano di trascinare la destra su sponde anti democratiche perché in Cile e in Argentina c’erano dittature militari, quanto di più distante da quell’istinto di libertà che pervadeva il nostro elettorato e il nostro mondo giovanile, sempre dinamico intellettualmente, nonostante fosse costretto a vivere gli anni ’70 in trincea. Già in quel periodo ci fu una battaglia frontale per condurre la destra alla normalità impedendo ogni deriva estremista, nostalgica, violenta, antiliberale. Quando è arrivato il turno della mia generazione si è chiusa la partita definitivamente e nei confronti di questi rigurgiti extraparlamentari si è approfondito quel solco invalicabile che già esisteva.
Occorre peraltro constatare che questo richiamo alla libertà ha attraversato e accompagnato l’evoluzione della destra italiana dalla sua origine, nel 1946. Chi ha guidato la destra parlamentare ha sempre ancorato il suo percorso alla democrazia e alla libertà.
Ma la destra, rispetto a quarant’anni fa, si è evoluta. Si può sostenere la tesi che si sia istituzionalizzata, alcuni dicono imborghesita. È una destra che, arrivata al governo, si è snaturata? Quanto è diversa rispetto a decenni fa?
La destra ha sempre avuto una grande sensibilità istituzionale, il suo attaccamento allo Stato è ancestrale, il suo desiderio di difenderlo, renderlo retto, efficace, sovrano, immune dagli attacchi esterni e dal terrorismo o dal tentativo di colonizzarlo. Basterebbe vedere quante volte ha fatto squadra con una maggioranza avversa, per amore dell’Italia, per esempio in politica estera. Altre destre, quando sono state al governo, si sono snaturate: va ammesso, perché fare autocritica significa crescere. Ma in questo governo io non vedo metamorfosi. Certo, non si può fare tutto subito, ma un conto è mettere a posto il disordine nel quale abbiamo trovato l’Italia, altro conto è indirizzarla, anche dal punto di vista dei valori di riferimento, dove noi vorremmo che andasse. Per questo c’è bisogno di maggior tempo, di un’azione di lungo respiro, di contributi culturali non conformisti e di una classe dirigente che possa gradualmente sostituire quella che ha tenuto in pugno la nostra comunità nel secondo dopoguerra. Chi vuole trarre giudizi affrettati rischia di vanificare un’occasione irripetibile.
Una destra troppo spesso ghettizzata in passato, con prove di discriminazioni che si sono protratte fino a oggi. Ma è possibile aprire un dialogo anche con gli avversari politici?
La democrazia non dovrebbe mai cedere alla tentazione delle discriminazioni nei confronti di alcuno, la sua arma irresistibile è rappresentata dalla persuasione. Deve accontentarsi di vincere con questo strumento formidabile che sa entrare nella testa e nei cuori dei popoli, vincere senza uccidere, sconfiggere il male senza utilizzare altro male. Invece la destra è stata ghettizzata per mezzo secolo, l’arco costituzionale l’ha discriminata senza riuscire a cancellarla. Pregiudizi che corrono sotto traccia anche oggi e rendono più difficile il dialogo, il riconoscimento nella diversità di punti su cui fare sintesi a beneficio della comunità. Una dimensione che dovremmo sempre cercare di coltivare, perché il bipolarismo verso il quale dobbiamo protendere e che potrebbe rafforzarsi con la riforma del premierato, non può essere muscolare, tantomeno violento, perché tradirebbe gli interessi comuni nell’avere una Nazione autorevole, stabile, rispettata, capace di rinascere. E’ la sindrome mediatico elettoralistica a ostacolare il confronto, i partiti di opposizione si ostinano a recitare una parte per elevare il proprio audience e mettono l’interesse generale in secondo piano. Si lavora più per la fazione che per la nazione. La destra ha un’altra postura, perfino negli anni sanguinosi dell’antifascismo militante ci fu il gesto nobile di Almirante che si recò a Botteghe Oscure a rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer. Ma la strategia della tensione, alimentata dal pentapartito per sopravvivere al malcontento che lo avrebbe spazzato via in pochi anni, serviva a spaventare gli italiani e tenerli distanti, a costo di far scorrere sangue innocente nelle strade.
Ha ancora senso, oggi, parlare di destra sociale?
Lo ha più oggi di quanto non ne avesse vent’anni fa. Semplicemente perché il movimento conservatore cui Fratelli d’Italia appartiene, come del resto capita a tutte le altre famiglie politiche europee, vede una presenza di correnti acriticamente mercatiste e globaliste che vanno bilanciate con un presidio sociale, capace di anteporre agli interessi formidabili dei grandi potentati economico finanziari quelli dei popoli. Non dobbiamo combattere il liberismo, ma gli dobbiamo dare regole tali da impedire che vengano sfruttati i popoli, i lavoratori, le famiglie. C’è bisogno di questa vocazione oggi per creare un movimento nuovo, un ‘conservatorismo sociale’, ormai offuscati da una cultura apatride, speculativa e mondialista. La cosiddetta ‘economia sociale di mercato’ deve diventare qualcosa di più di una definizione suggestiva, una specie d’incompiuta che vorrebbe tenere insieme libertà economica e salvaguardia dei bisogni primari dei lavoratori e dei vulnerabili.
L’Italia ha dato il la a una rinascita delle destre conservatrici in tutto il mondo. L’Europa sembra aver recepito il messaggio degli elettori, gli Stati Uniti sono tornati ai repubblicani. Come si evolverà, nel prossimo futuro, la destra? Qual è il percorso di questa nuova destra a cui l’occidente si sta aprendo?
Questo processo verso il ‘conservatorismo sociale’ è diventato più credibile grazie alle intuizioni, alla specificità, all’identità della destra italiana e di Giorgia Meloni. Non vedo in Europa movimenti che siano oggi nelle condizioni di sperimentare questa posizione alternativa ai materialismi. E’ una ricchezza che dobbiamo preservare, non cedendo a quelle sirene che vorrebbero una trasformazione della destra italiana in qualcosa di diverso: è un film che abbiamo già visto con Alleanza Nazionale, che poi si è dissolta, annacquata dentro al Popolo delle Libertà e privando la storia nazionale di un intero pensiero filosofico, di una concezione del mondo che esiste al netto dei partiti e delle loro trasformazioni e che oggi conosce la sua possibilità di trasformare i pensieri in azioni.