Le parole non sono mai solo parole. Sono armi affilate, strumenti di costruzione o distruzione, capaci di plasmare la realtà, orientare il pensiero e ridefinire il mondo. Chi le considera mere convenzioni linguistiche ha già perso la battaglia prima ancora di combatterla. Le parole portano con sé un carico ideologico, un’intenzione, un progetto.
Lo sapeva Socrate, che nel V secolo a.C. usava il dialogo come un’arma per smascherare le false verità e riportare alla luce il reale attraverso il linguaggio. Lo sapeva Orwell, che in 1984 descriveva la neolingua come uno strumento per restringere il pensiero e controllare le masse. E lo sanno bene, oggi, i progressisti woke, che combattono una guerra culturale silenziosa ma implacabile per conquistare il controllo delle parole.
Negli ultimi decenni, la sinistra ha condotto una campagna sistematica per cambiare il linguaggio e, con esso, il modo in cui pensiamo e viviamo la realtà. Non è un’operazione casuale, ma una strategia deliberata: ripetere un termine, un concetto, una narrazione abbastanza a lungo, finché non diventa non solo accettabile, ma inevitabile. È il martellamento culturale.
Parole come «inclusione», «sostenibilità» o «diversità» hanno smesso di essere concetti universali per trasformarsi in pilastri di un’ideologia che promuove un’uguaglianza distorta, la teoria gender e un pensiero unico mascherato da progresso. Chi controlla il linguaggio, controlla la mente.
Per questo un conservatore autentico, radicato nei valori della destra – libertà individuale, identità, tradizione, verità fondata sulla realtà – non può cedere neanche su una sillaba. Termini come «sindaca», «ministra» o «assessora» non sono semplici variazioni grammaticali: sono simboli di un’imposizione culturale. Usarli significa riconoscere, anche solo implicitamente, la validità dell’impianto ideologico che li sostiene.
È un inchino alla loro narrativa, un passo verso la resa. Lo ha dimostrato con chiarezza Giorgia Meloni, che pretende di essere chiamata «il Presidente Meloni»: una scelta di coerenza che dovrebbe essere un esempio per tutti i conservatori, per chiunque si consideri di destra. Altro esempio virtuoso è il suo uso sistematico del termine «nazione» anziché «paese»: una parola che racchiude un’idea, un’appartenenza e una visione ben più profonde, e che da sola diventa un tratto distintivo e caratterizzante. All’opposto, cedere all’utilizzo del termine «migrante» anziché «immigrato» è un segno evidente di resa al martellamento linguistico della sinistra e dei media mainstream.
Oggi quasi nessuno osa pronunciare «immigrato clandestino», come se fosse un’onta, un’offesa, quando invece è semplicemente italiano. Lo stesso vale per l’uso di espressioni come «gestazione per altri» al posto di «utero in affitto», o «interruzione volontaria di gravidanza» al posto di «aborto»: eufemismi studiati per attenuare l’impatto reale delle parole e spostare il giudizio morale. Utilizzare, o peggio ancora far entrare nel nostro vocabolario, termini come «fluidità» significa cedere culturalmente, significa accettare insieme alle parole i concetti che esse rappresentano. Gli esempi di questo tipo si potrebbero fare a migliaia.
Giorgio Almirante lo aveva intuito con chiarezza: «la più grande gioia è vedere la tua verità fiorire sulle labbra del tuo avversario». Ma il pericolo opposto è altrettanto insidioso: se adottiamo il linguaggio dei nostri avversari, finiamo per interiorizzare le loro categorie mentali, il loro modo di vedere il mondo. È una capitolazione strisciante, che si consuma frase dopo frase, conversazione dopo conversazione. Quando usiamo i loro termini, combattiamo sul loro terreno, con le loro regole.
Le parole non sono mai state neutre. Socrate, con il suo metodo dialettico, insegnava che il linguaggio è il mezzo attraverso cui si cerca la verità, ma anche il campo di battaglia dove le menzogne si travestono da ragione. Chi manipola le parole, manipola il pensiero. Lo vediamo oggi con termini come «inclusione»: un concetto nobile, svuotato del suo significato originario per diventare uno strumento di promozione della diversità come valore assoluto, a scapito del merito e della realtà biologica. La «sostenibilità» è stata piegata a un’agenda politica che nasconde precisi interessi economici. La «diversità» è diventata un dogma che rifiuta il confronto e demonizza la normalità.
Un esempio ancora più evidente è la parola «genere». Non più sinonimo di sesso biologico, ma concetto fluido, slegato dalla realtà materiale, usato per sostenere che l’identità sia una costruzione puramente soggettiva. Questo slittamento semantico non è casuale: è il frutto di un’operazione culturale che riscrive il linguaggio per imporre una nuova visione del mondo. Usare «genere» in questo senso significa accettare l’idea che la biologia sia irrilevante, che la verità sia malleabile, che la realtà possa essere plasmata a piacimento.
La guerra delle parole non si combatte solo nei parlamenti, nei talk show o sui social media. Si combatte ogni giorno, in ogni conversazione, in ogni scelta lessicale. Dire «sindaco» invece di «sindaca» non è una questione di grammatica: è un atto di resistenza culturale. È il rifiuto di piegare il linguaggio – e con esso il pensiero – a un’ideologia che vuole cancellare le differenze naturali, riscrivere la storia e imporre un conformismo travestito da progresso.
Resistere non è facile. Viviamo in un’epoca in cui il linguaggio è sorvegliato da una polizia del pensiero pronta a bollare come retrogrado o intollerante chiunque osi dissentire. Ma proprio per questo non possiamo permetterci di cedere. Ogni parola che abbandoniamo è un pezzo di terreno consegnato al nemico. Ogni termine che accettiamo è un mattone aggiunto al loro edificio ideologico.
La posta in gioco è altissima. Le parole sono il fondamento della nostra identità, della nostra cultura, della nostra libertà. Quando permettiamo che vengano manipolate, consentiamo che lo siano anche i nostri pensieri, i nostri valori, il nostro modo di vedere il mondo. Difendere il linguaggio significa difendere la possibilità di pensare liberamente, di chiamare le cose con il loro nome, di non piegarsi a una narrazione che vuole riscrivere la realtà a immagine di un’ideologia.
Questa è la guerra delle parole, una lotta concreta che si combatte frase dopo frase, scelta dopo scelta. Non possiamo permetterci di essere ingenui o di cedere per quieto vivere. Socrate pagò con la vita la sua fedeltà alla verità; Orwell ci avvertì del pericolo di un linguaggio svuotato di senso. Oggi tocca a noi raccogliere il loro monito. Quando ci arrendiamo su una parola, non perdiamo solo una battaglia: apriamo la porta alla resa culturale. E una volta che il linguaggio è stato conquistato, riconquistarlo è un’impresa titanica.
Resistiamo, dunque. Parola dopo parola, frase dopo frase. Non per ostinazione, ma per fedeltà alla verità, alla libertà e a ciò che siamo.
Complimenti, articolo che meriterebbe di essere letto nei nostri licei e nelle nostre scuole…
Perchè nel corso degli anni è vero che la lingua italiana si è sempre evoluta, ma partendo dalla quotidianità della gente comune, non in quanto manipolata da una minoranza imbibinata da un “politicaly correct” che sfocia nel demenziale.
E ne avrei anche abbastanza, almeno io, di sentire dire “sindaca, ministra o assessora”, roba da essere rimandati… così come di vedere scrtitto, anche in ambiti di pubblica amministrazione, “cittadin*” con l’asterisco per nascondere, appunto il genere.
Ma il problema è che questo, per le nuove generazioni, sarà haime normale, almeno che non ci sia una vera riforma scolastica incisiva, ma mi sembra che qui il governo non abbia il necessario mordente.
Forza, coraggio..
Grazie
Alessandro, questa battaglia per il linguaggio è veramente strategica.
Purtroppo l’italiano, rispetto al latino, ha perso il caso “neutro”.
Maschile, femminile, neutro.
Non c’è il neutro, i sostantivi non possono che essere o maschili o femminili.
In italiano si è formata la consuetudine del cosiddetto “maschile sovraesteso”, cioè usato anche con riferimento a persone di genere femminile.
E’ la nostra lingua, che come tutte le lingue può combiare con l’uso, non per decreto.
Ma la distorsione ideologica nel caso della declinazione dei sostantivi che indicano un mestiere è anche maggiore di quella che giustamente indichi.
Un mestiere è uguale se eseguito da un uomo o da una donna.
“Sindaco” o “sindaca”? Ci sono buoni sindaci e cattivi sindaci, maschi o femmine che siano!
Ci sono modi migliori o peggiori di esercitare un mestiere, ma questo in genere dipende dall’abilità di chi lo esercita, non dal genere maschile o femminile.
Declinare i mestieri nei generi significa affermare che un mestiere esercitato da una donna è diverso da quanto fatto da un uomo.
E questo sì è sessismo.
La nostra Costituzione, pur nei suoi tanti limiti, dice che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Di fronte alla legge, al lavoro, ai diritti ed ai doveri, siamo cittadini, non maschio femmina o che altro ciascuno possa ritenere di sé.
con affetto
Alessandro