C’era una volta un paese che si chiamava Repubblica socialista Cecoslovacca, nome imposto nel 1960 e andato avanti fino al 1990. Il nome tradizionale, Repubblica Cecoslovacca, era stato modificato il 1 luglio del 1960 con l’aggiunta di socialista, quando era stato imposto a simboleggiare la “vittoria finale del socialismo” in una di quelle nazioni che facevano parte del Patto di Varsavia.
Come tutti i paesi che aderirono al blocco comunista dopo la Seconda guerra mondiale, anche la vita della Repubblica Socialista Cecoslovacca fu caratterizzata da una relativa arretratezza economica se paragonata all’Europa occidentale, dall’assenza di democrazia e da una decisa svolta verso l’ateismo. Tutto ciò per oltre trent’anni a parte un breve periodo che viene ricordato come La primavera di Praga.
Sotto il tallone dell’”alleato” sovietico, la Repubblica socialista Cecoslovacca sembrò destinata a una svolta quando il 5 gennaio del 1968 salì al potere il riformista Alexander Dubček. All’epoca 47enne, Dubček era nato a Uhrovec in Slovacchia, da genitori emigrati negli Stati Uniti da cui erano tornati nel 1921. La famiglia, in seguito, si era trasferita in Unione Sovietica ma, anche da qui, era poi rientrata in Cecoslovacchia. Il giovane Alexander cominciò a lavorare come operaio nel 1939, salvo aderire al movimento clandestino comunista con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, prendendo parte alla resistenza antinazista e all’insurrezione slovacca nel 1944. Grazie al suo impegno, divenne deputato dell’Assemblea Nazionale e nel 1963 segretario del Partito Comunista Slovacco, che insieme al movimento Boemo e a quello della Moravia andò a formare il Partito Comunista di Cecoslovacchia, PCC.
Ma con l’evoluzione della carriera, in Dubček cominciò a crescereanche una profonda coscienza sociale che lo convinse della necessità di abbandonare il modello sovietico, anche perché non sembrava proprio che quel modo di interpretare la società potesse conciliarsi con la dignità e la libertà di un individuo. Così, Alexander Dubček avviò un progetto di liberalizzazione che avrebbe dovuto offrire al suo Paese e al mondo intero “un socialismo dal volto umano”.
Alexander riunì intorno a sé un gruppo di politici e intellettuali che condividevano le sue idee di riforma, dando origine a una nuova stagione politica che fu appunto denominata La Primavera di Praga. Il 5 gennaio 1968 venne eletto segretario generale del PCC al posto di Antonín Novotný, leader della componente più legata al Partito comunista sovietico, e iniziò così il “nuovo corso” atto ad aprire tutti i settori della società a una libertà fino ad allora mai perfino sognata, sebbene sempre guidata da un partito unico.
Naturalmente a Mosca non gradirono le parole di Dubček quando il premier cecoslovacco affermò di voler creare “una società libera, moderna e profondamente umana”. Ancora meno gradirono le aperture che Dubček cominciò a mettere in pratica . Speranza e ottimismo fiorivano a Praga, nelle strade si respirava una sorta di “effervescenza” che era frutto di speranza e di gioia, ma durò davvero poco. “L’alleato” sovietico non poteva accettarlo, non solo perché quell’atteggiamento fuori dagli schemi metteva in discussione la sua leadership, ma perché avrebbe potuto trascinare con sé buona parte degli altri paesi satellite in un effetto domino che avrebbe distrutto “l’impero sovietico”
Così, il 21 agosto del 1968, in una calda giornata di sole, truppe del Patto di Varsavia, sotto la guida sovietica, marciarono su Praga con una colonna corazzata e la determinazione di mettere fine alle velleità della Cecoslovacchia ad autodeterminarsi. Dubček fu arrestato dalle forze speciali al seguito delle truppe d’occupazione sovietica e trasportato assieme ai suoi principali collaboratori e ai più eminenti rappresentanti del nuovo corso a Mosca, dove fu costretto a siglare un protocollo d’intesa con il Cremlino che vincolava il suo ritorno alla guida del Partito con la “normalizzazione” della situazione politica nel paese. Così, si passò dal sogno della libertà a un periodo di oppressione anche maggiore che durò fino al 1990.
Ma se Dubček e il sogno dei cecoslovacchi furono sconfitti, la vittoria dei sovietici mise in mostra la feroce natura totalitaria del regime e fu quindi amara. In un certo senso fu il primo squillo di quello che sarebbe poi accaduto da lì a molti anni con il crollo dell’impero sovietico.