Il reddito di cittadinanza è una stravaganza politica della sinistra e di quanti sognano un mondo senza lavoro, sinonimo di oppressione e sfruttamento. Eppure il lavoro è creatività, immaginazione, benessere spirituale, autorealizzazione. Il lavoro – si diceva una volta – “nobilita l’uomo”, permettendogli di vivere onestamente e in armonia con gli altri. Il lavoro è civiltà. Lo diceva pure John Lennon: “Lavoro è vita, lo sai, e senza quello esiste solo paura e insicurezza”.
Vallo a spiegare a Phillipe van Parijs, il filosofo belga che da oltre trent’anni cerca di convincerci che un pagamento in contanti, su base individuale e senza alcun vincolo per chi è indisposto a lavorare o è impossibilitato a farlo è l’unica soluzione possibile al problema dell’ingiustizia sociale. Van Parijs dice di ispirarsi a John Rawls, il guru del pensiero liberal americano, autore di Una teoria della giustizia (1971), il cui “principio di differenza” richiede la massimizzazione non solo del reddito, ma anche della ricchezza e dei “poteri” di coloro che ne hanno di meno, perché vengano garantite a tutti le “basi sociali del rispetto di sé”. In altri termini, le disuguaglianze sociali ed economiche sono accettabili solo se avvantaggiano chi ha di meno, da assistere a prescindere dalla loro abilità al lavoro, e senza chiedere in cambio alcuna prestazione.
Il problema è che questi ed altri autori “egalitaristi”, tanto incensati negli ambienti intellettuali della sinistra, dimenticano che la ricchezza, prima di essere distribuita, va prodotta, e qualcuno deve pure farlo prima di vedersene in qualche modo espropriato.
Ciò nonostante, l’idea che lo Stato debba necessariamente provvedere a una regolare “infusione” di denaro gratuito ha ricevuto notevole fortuna negli ultimi tempi, grazie anche al sostegno di personaggi famosi come il miliardario della tecnologia Mark Zuckerberg e l’economista Milton Friedman. In Italia, nel 2019, quest’idea è diventata persino legge dello Stato, grazie anche alla contingenza favorevole della pandemia da Covid-19. È passato infatti il messaggio che dinanzi a una crisi così grave l’incertezza è tale che non si può lasciare i cittadini senza fonti di reddito garantito.
In alcuni paesi – e tra questi non figura certamente l’Italia – la ricetta ha funzionato, ma solo quando è stata introdotta a sostegno temporaneo di chi ha perduto il lavoro o sta per trovarne uno. Non si può negare che esiste lo sfruttamento di alcune aziende con stipendi da fame e che il tasso di povertà non smette di crescere, ma la soluzione non è il reddito di cittadinanza, che succhia investimenti pubblici impiegabili per il rilancio del mondo del lavoro giovanile, soprattutto al Sud.
E così la trovata del governo giallorosso da astratto paradigma di giustizia sociale si è trasformato, proprio al Sud, in vero e proprio voto di scambio, specialmente nell’ultima campagna elettorale per le politiche, che ha riesumato il peggiore clientelismo da prima repubblica: i “clientes”, cioè i beneficiari del reddito – più del 10 per cento dell’elettorato – hanno votato in massa per i loro benefattori.
In realtà, quella che viene spacciata come la più importante legge “di sinistra” del terzo millennio non è che l’obolo parassitario elargito dal potere alla plebe, un’offesa a chi si guadagna da vivere, un oltraggio al merito, ai sacrifici e all’uguaglianza vera. Sì, perché la vera uguaglianza non è quella che permette a tutti di gareggiare affinché tutti vincano, al di là del merito e del sacrificio individuali. Quel tipo di uguaglianza, propria dei regimi comunisti, ha provocato decine di milioni di morti in tutto il mondo. La vera uguaglianza è quella che si concilia con la partecipazione attiva e dignitosa alla vita della comunità in cui si lavora e, soprattutto, della nazione in cui si vive.
Da oggi, per effetto delle politiche del governo Meloni, questa legge antidemocratica, diseducativa e immorale non produrrà più gli effetti deleteri per i quali è stata a suo tempo ideata.
È il primo, importante atto compiuto verso un recupero dell’“umanesimo del lavoro” di gentiliana memoria. In Genesi e struttura della società (1943), il testamento spirituale scritto poco prima di essere ammazzato dai partigiani rossi, Gentile prefigurava l’avvento di un nuovo umanesimo in grado di garantire il predominio sociale della figura del lavoratore quale soggetto protagonista della vita politica della nazione: “l’uomo reale – diceva – è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale”.
È una delle tante potenzialità ancora vive e valide di un arsenale culturale italiano per troppo tempo dimenticato e che forse è giunto il momento di attualizzare.