Marcello Foa è giornalista, docente di comunicazione all’Università Cattolica di Milano e all’Università della Svizzera Italiana, ha diretto il Gruppo Corriere del Ticino e fatto il Presidente della RAI: ma, tra tutte le tappe di una carriera oggettivamente prestigiosa, quella capace di fargli illuminare gli occhi è certamente l’esperienza da allievo di Indro Montanelli a Il Giornale. «Mi diceva sempre che quando tutti sostenevano la stessa opinione, lui sentiva puzza di bruciato», racconta Foa, dimostrando l’enorme attualità dell’approccio politicamente scorretto di Montanelli.
Forma mentis che ritroviamo nell’ultimo libro di Foa, “Il Sistema (in)visibile – Perché non siamo più padroni del nostro destino” (ed. Guerini e associati, pp. 248), grazie al quale ci spiega nitidamente quali strumenti di comunicazione vengono impiegati per “plasmare” opinioni, abitudini e decisioni di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo Occidentale.
Anzitutto, quali sono i soggetti che compongono l’élite globalista che si è appropriata del nostro destino?
«L’élite globalista trova ovviamente origine in quella che negli Anni Novanta era l’unisca superpotenza, gli Stati Uniti, e si declina secondo logiche che sono bene diverse da quelle binarie (destra-sinistra, Stato-privati), si basa infatti sulla convergenza e sovente la sovrapposizione di interessi di più mondi: politico, finanziario, economico, istituzionale. E su centri decisionali fuori dalle grandi istituzioni, che esercitano la propria influenza attraverso l’instaurazione di meccanismi di condizionamento impliciti e ineludibili, con una progressiva perdita di sovranità».
Nel libro parla della “disarticolazione della società”, concetto che a mio avviso sta alla base delle tante divisioni create artatamente in nome del divide et impera che oggi si traduce nel fenomeno della polarizzazione. Può spiegarci come funziona?
«La globalizzazione implica non solo libertà commerciale (il che è un bene), ma anche la diffusione di uno stile di vita il più possibile unificato in tutto il mondo. E per raggiungerlo si incentiva un continuo sradicamento di quel che costituisce l’identità di un popolo: la sua storia, la sua identità, la sua religione, persino il concetto stesso di famiglia è rimesso in discussione; da qualche anno si attenta alla lingua e addirittura all’identità sessuale. La Cancel Culture è emblematica in quanto mira alla creazione di un Uomo Nuovo senza Memoria, senza Radici, sempre più simile da un Continente all’altro, dunque rinnegando la splendida varietà del genere umano».
Contesto in cui un ruolo fondamentale lo gioca l’informazione: quali sono le tecniche utilizzate per condizionarla?
«Descrivo queste tecniche da quasi vent’anni. Contrariamente a quel che credono molti, l’obiettivo non è tanto di condizionare il singolo giornalista ma l’insieme dei media e dunque di imporre un “frame” ovvero un quadro interpretativo sui singoli argomenti che diventa dominante marginalizzando visioni e interpretazioni differenti. Da qui il prevalere del politicamente corretto e talvolta del pensiero unico. Le tecniche si basano su una perfetta conoscenza delle regole non scritte e delle logiche mediatiche, unitamente a metodi di condizionamento psicologico. Le ho descritte per la prima volta nel 2006 nel saggio “Gli Stregoni della notizia” (ed. Guerini e Associati, pp. 293) e da allora la situazione, purtroppo, non è certo migliorata».
Restando in tema di informazione, uno dei grandi meriti del web è quello di consentirci di paragonare in tempo reale la nostra situazione con ciò che avviene altrove nel mondo: è evidente che ovunque, in Occidente, i media mainstream siano divenuti una sorta di monolite nel sostenere i dettami dell’ideologia woke, il pensiero unico ci propina un calderone di “diritti” che vanno dall’utero in affitto alla teoria gender senza ammettere obiezioni; o li condividi oppure vieni etichettato come fascista, omofobo o razzista. Perché questo attacco così violento a valori fondanti della Civiltà Occidentale?
«A mio giudizio perché a metà degli anni 2010 ci sono state delle novità impreviste: la Brexit, la vittoria di Trump negli Stati Uniti, quella di Lega e CinqueStelle in Italia, di movimenti alternativi in moltissimi Paesi. L’establishment ha perso il controllo sia dell’agenda globalista sia di molti governi nazionali. Da qui l’urgenza di implementare misure drastiche per correggere la rotta, fra cui, purtroppo, anche la censura sul web ma anche l’accelerazione brutale e dirompente anche dei fenomeni disgreganti che erano insiti nella globalizzazione. C’è stata un’accelerazione nei tempi e dunque anche una radicalizzazione degli approcci, mentre l’assuefazione progressiva e non traumatica aveva caratterizzato i primi 15 anni della globalizzazione. Da qui pulsioni violente che rischiano di far implodere la società occidentale dall’interno, a cominciare da quella statunitense. Non a caso la resistenza all’ideologia Woke è molto forte, a cominciare proprio dagli Stati Uniti e sta generando fortissime lacerazioni in un Paese un tempo unito e patriottico».
Invece, una delle criticità del web è costituita dal potere abnorme acquisito dalle GAFAM (acronimo di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, ndr): quanto è importante per le nazioni affermare concretamente il principio di Sovranità digitale?
«È molto importante. Oggi il digitale è sempre più diffuso non solo nell’economia ma anche nelle nostre abitudini quotidiane. Gli adulti trascorrono due-tre ore al giorno sul cellulare, i ragazzi 7-8 ore, durante le quali permettiamo ai GAFAM di profilarci e dunque di sapere quasi tutto di noi. Cediamo ogni giorno migliaia di dati senza esserne consapevoli, perdendone il controllo. Il concetto di Sovranità digitale è essenziale non per tentare di frenare lo sviluppo tecnologico ma per mantenere un controllo nazionale su un mondo che non può essere delegato a queste multinazionali. Non dobbiamo essere ricattabili».
Oltre che sui giornali, la sfida passa anche per la cultura, da Yale che cancella il corso sul Rinascimento perché “maschilista e troppo bianco”, alla Disney che censura i suoi stessi cartoni animati di qualche anno fa, alle arcinote provocazioni andate in onda in programmi nazionalpopolari come Sanremo, per arrivare a decisioni assurde come l’abolizione del Natale o della Festa della Mamma e del Papà dalle scuole: a suo avviso quali sono le basi necessarie per creare una strategia organica di lungo periodo affinché la cultura di stampo conservatore possa riequilibrare la narrazione?
«Avendo il coraggio di essere assertivi e di non subire sempre la narrazione altrui. I conservatori lamentano l’egemonia culturale della sinistra ma poi finiscono sempre per adeguarsi ai temi che la sinistra mainstream impone. La frase classica: “Se fosse successo a un politico di destra, chissà cosa avrebbero detto…” è sintomatica di un’attitudine vittimistica. Occorre invece sapere proporre una propria narrativa che si impone non perché polemica e reattiva ma perché solida, autorevole, propositiva. Che non guarda solo al passato ma sa adeguarsi a un mondo in continuo mutamento, mantenendo la fedeltà ai propri valori. È un obiettivo che ovviamente richiede molti anni e una classe culturale all’altezza. Non facile, ma si può fare».
In questi primi mesi di governo Giorgia Meloni si sta confermando assolutamente determinata nel difendere senza tentennamenti i valori alla base delle nostre radici giudaico-cristiane la cui omissione dalla convenzione europea – poi bocciata nel 2007 – fece infuriare Papa Giovanni Paolo II che, in quella circostanza, affermò che «non si tagliano le radici dalle quali si è nati!» A suo avviso da quali pericoli dovrebbe guardarsi il presidente del Consiglio in questa battaglia contro il “sistema (in)visibile”?
«Quando un premier arriva a Palazzo Chigi è come se entrasse in un cockpit di un aereo, la differenza è che si accorge presto di non poter azionare tutte le leve come vorrebbe, perché sette su dieci sono controllate da un pilota automatico; ha libertà di manovra e piena sovranità solo su tre. Ma gli elettori pensano che abbia pieni poteri, da qui il disincanto nei confronti della politica che si traduce fra l’altro in un crescente astensionismo. Penso che Giorgia Meloni stia cercando di navigare evitando gli scogli sommersi, per non farsi affondare e al contempo per ritagliarsi degli spazi di autonomia, il che significa anche far di tutto per difendere gli interessi italiani, stante le regole del gioco. Può sembrare poco ma all’interno del sistema (in)visibile è già molto. Se supererà questa fase potrà tentare di applicare alcune riforme che le stanno a cuore e, aspetto tutt’altro che secondario, opporsi alla costante cessione di sovranità, che invece era molto gradita da Draghi e perseguita dal Partito Democratico, in genere dalla sinistra mainstream. Il fattore tempo è molto importante, è una partita davvero delicata».
Il 2024 sarà uno snodo cruciale: il 9 giugno ci saranno le elezioni europee, con il centrodestra che punta a conquistare la maggioranza, ed il 5 novembre le presidenziali americane, dove Trump intende sfidare nuovamente un Biden in netta difficoltà. Come già avvenuto in passato, il mainstream farà di tutto per impedire che ciò avvenga: quale sarà la chiave comunicativa per vincere questa sfida epocale?
«Purtroppo avremo a che fare con la censura dei social, che colpirà solo i candidati di centrodestra e in genere quelli non mainstream; il che è grave e pericoloso per la democrazia. Ciò detto, i canali di informazione sono talmente numerosi che la censura assoluta è impossibile. E soprattutto è impossibile ignorare il malessere di molti elettori sia in Europa sia in America. La due elezioni avranno logiche molto diverse, quella europea è più fredda a meno sentita dagli elettori nei diversi Paesi. Quella americana sarà intensa e passionale, temo che il mainstream ricorrerà alle solite tattiche, che contemplano innanzitutto la Character Assassination ovvero la distruzione della personalità del candidato anziché, come dovrebbe essere, confrontarsi innanzitutto sulle idee. Non è detto che basti perché l’elettorato è polarizzato e dinsincantato. In ogni caso sarà una campagna molto interessante, a partire dalle primarie, che contemplano oltre a Biden, Trump e DeSantis anche la sorpresa emergente, l’“eretico” Robert F. Kennedy junior. Un nome pesante in grande ascesa e gradito anche a molti elettori conservatori. Di certo sarà una campagna appassionante e molto importante per il futuro dell’Occidente».