Più che un monologo, alla sinistra servirebbe uno strizzacervelli. Ma di quelli bravi. Uno alla Foti, per intenderci. Limitiamoci ad analizzare l’ultima settimana: Elly Schlein e la sinistra gridano alla censura fascista perché la Rai ha bloccato il monologo di Scurati e, contestualmente, chiedono alla stessa Rai di censurare la giornalista Incoronata Boccia perché ha dichiarato – cito testualmente – che l’aborto «più che un diritto è un delitto.»
Cioè, la medesima posizione di Papa Francesco e di decine di milioni di cristiani che difendono la sacralità della vita.
Quello sopra descritto è l’atteggiamento tipico della sinistra postcomunista che, dal dopoguerra ai giorni nostri, ha improntato la propria azione politica sul concetto di mistificazione della realtà costruendo – per dirla con il celebre politologo statunitense Walter Lippmann – uno pseudo-ambiente nel quale l’avversario, essendo considerato “illegittimo”, diventa nemico e, in quanto tale, eliminabile con ogni mezzo.
Senza girarci troppo intorno, è il concetto che sta alla base dell’assunto «uccidere un fascista non è reato», ovvero il principio cardine del cosiddetto “antifascismo militante” in virtù del quale negli anni ’70 i compagni si sentivano autorizzati a fracassare il cranio agli avversari politici, esattamente come fecero con Sergio Ramelli, che morì il 29 aprile di 49 anni fa dopo una terribile agonia.
Per comprendere il sentimento su cui si fonda questo genere di “antifascismo” è sufficiente ricordare che il Consiglio comunale di Milano accolse con un applauso la notizia della morte del povero diciottenne, ammazzato a sangue freddo da un commando di suoi coetanei in quanto iscritto al Fronte della Gioventù che ebbe l’ardire di scrivere un tema contro le Brigate Rosse.
Il livello è questo, ed è tristissimo constatare che, a distanza di tutti questi anni, la sinistra postcomunista abbia perso tutti i propri pregi (difesa delle classi meno abbienti e della famiglia quale cellula fondante della società) tenendosi però stretti i difetti: come non pensare alla levata di scudi in difesa di Ilaria Salis, giustamente detenuta in Ungheria, dove si era recata con un commando di “antifa” per sfasciare il cranio di qualche odiato “fascista”.
A pensarci bene non poteva che essere candidata dagli stessi personaggi che hanno portato in Parlamento Soumahoro, in ogni caso siamo di fronte a una doppia vergogna: perché la candidatura equivale alla difesa del concetto secondo cui «uccidere un fascista non è reato» e, poi, perché si tratta di un espediente di Bonelli per raccattare i voti degli estremisti al fine di raggiungere lo sbarramento del 4%. Gli auguro con tutto il cuore di fermarsi al 3 e nove.
A fronte di tutto ciò, mi pare ovvio che non ci definiamo antifascisti: l’automatismo secondo cui chi rifiuta di definirsi antifascista sarebbe automaticamente fascista è la trappola lessicale con cui la sinistra a corto di consensi e idee spera di campare di rendita ancora per anni. Anche mettendo il cappello sul 25 aprile, che i loro predecessori avrebbero voluto trasformare nella festa di passaggio dalla dittatura fascista a quella comunista di “baffone” Stalin.
La vera vergogna è che persone faziose e totalmente antidemocratiche politicizzino una festa che rappresenta l’esatto opposto: la Libertà.
Buon 25 aprile e Viva l’Italia! Sapete com’è, a noi basta così.