Le contraddizioni del Green Deal e il futuro della competitività europea

L’Occidente è caduto nella più grande trappola geopolitica della contemporaneità, parte di una più ampia strategia per la ridefinizione degli equilibri globali portata avanti dal principale contendente al ruolo di potenza egemone: la Cina.

Sfruttando l’onda delle discussioni sulla transizione verde e digitale, in pochi decenni Pechino è riuscita ad assicurarsi un dominio quasi indiscusso sulle materie prime e su gigantesche parti delle filiere di strumenti indispensabili per la transizione: produce l’80% dei pannelli solari, il 54% delle auto elettriche, il 77% delle batterie e il 60% delle terre rare (ma ne raffina il 90%).

Allo stesso tempo è sempre rimasta lo Stato più inquinante del mondo. Secondo i dati della Commissione europea, dal 1990 al 2023 le emissioni cinesi di gas serra sono aumentate del 311% e sono ora più del 30% di quelle totali. Al contrario, nel 2023, Stati Uniti e UE hanno ridotto le loro emissioni: rispettivamente -1,4% e -7,5%.

Un paradosso? Niente affatto, un “capolavoro” politico internazionale! La Cina sta utilizzando l’agenda “green” mondiale per rafforzarsi economicamente, al contempo penalizzando i suoi principali competitor: Stati Uniti ed Unione Europea. Inquiniamo di meno ma a che prezzo?

Ci è voluto Mario Draghi a dare una sveglia all’Europa e a dire che la competitività del Vecchio continente è praticamente inesistente, che abbiamo sviluppato dipendenze letali dall’estero e che ciò discende anche dall’attuazione di politiche climatiche non accompagnate da adeguate politiche industriali.

Come siamo arrivati fin qui? C’entra molto il fatto che ci siamo a lungo affidati alla Cina, che rappresentava la strada più economica e semplice, per procurarci pannelli solari, turbine eoliche e simili per soddisfare la nostra sete di energia pulita. Ci siamo affidati a industrie che sfruttano manodopera a basso costo e senza tutele, che fanno ancora molto affidamento sul carbone (fonte del 61% dell’energia cinese), producendo beni che sono a “emissioni zero” quando in uso ma che avvelenano il pianeta nelle fasi della loro realizzazione. Abbiamo smantellato intere filiere produttive ed avvantaggiato industrie orientali spesso statali, o fortemente sussidiate dallo Stato, che hanno distorto il mercato internazionale marginalizzando le aziende europee.

Per le tecnologie moderne, poi, occorrono minerali e metalli che storicamente hanno un processo di estrazione e raffinazione molto inquinante (le terre rare). Cosa abbiamo deciso di fare? Non di individuare strade alternative, bensì di smettere di estrarre e raffinare e delegarlo a qualcun altro – sì, proprio la Cina – che ha continuato quei processi con altissimi tassi di inquinamento e sfruttando accordi predatori con diversi Stati africani. Si è optato, quindi, non di smettere di inquinare ma semplicemente di salvare la faccia facendo inquinare altri per nostro conto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Questi errori strategici non sono motivati soltanto da considerazioni economiche o reputazionali. L’Occidente è stato tratto in inganno da una promessa allettante: la prospettiva di essere, finalmente, un “eroe” che poteva salvare il pianeta.

Una prospettiva che ha attratto soprattutto gli ultra-ecologisti di sinistra, dandogli finalmente l’impressione di avere una legittimazione, quel fine superiore per le loro proposte infarcite di ideologia e prive di razionalità. È così che è stato partorito il disastroso Green Deal, che non ha fatto altro che consegnare definitivamente le chiavi dell’UE a Pechino.

Alla transizione verde si affianca quella digitale, che poggia sulla smaterializzazione per ridurre l’inquinamento. Si omette di dire, però, che l’industria digitale – in termini di consumi di materiali, acqua, suolo ed energia – ha un’impronta carbonica pari a 3 volte quella di Francia o Regno Unito.

Con la nuova legislatura europea si continuano a cercare delle toppe per coprire questo decennale buco, nel tentativo di costruire un’autonomia strategica europea. Il fatto che la nuova Commissaria alla transizione sia la socialdemocratica spagnola Teresa Ribera Rodríguez non fa ben sperare. Ricorderete il patetico siparietto dell’allora Ministro, che fece una passerella di 200 metri in bicicletta per arrivare al Consiglio dei ministri dell’ambiente ed anergia dell’UE a Valladolid…peccato che fosse scortata da due auto di grossa cilindrata e che avesse alle spalle un precedente tragitto in macchina di oltre 200 km. 

Il perfetto emblema dell’ipocrisia della sinistra europea che ha costruito il Green Deal su misure ideologiche che hanno favorito e continuano a favorire il Paese più inquinante al mondo, incurante dei devastanti effetti sui tessuti sociali e produttivi europei. È forse la rinascita di un’informale internazionale comunista, non più rossa ma rigorosamente green, che lavora per conto della Cina a scapito del resto del mondo?

La speranza risiede nei gruppi di centro-destra – ECR in primis, con Fratelli d’Italia – che, in seno al Parlamento europeo, hanno già portato la voce dei tanti cittadini stufi di sentirsi dire che dovranno spendere migliaia di euro per automobili a zero emissioni o per efficientare le case e contribuire di tasca loro al salvataggio del pianeta. Obiettivo è ripensare la transizione perché sia veramente sostenibile per l’ambiente ma anche per l’uomo che lo abita: una decarbonizzazione che non comporti la desertificazione produttiva.

È così impensabile superare l’insalubre fissazione per l’elettrico in favore di una piena attuazione del principio di neutralità tecnologica che tenga conto anche delle opportunità fornite da biocarburanti, idrogeno verde e batterie alternative al litio?

Non abbiamo imparato nulla dopo la pandemia e la guerra in Ucraina sull’esigenza di diversificare gli approvvigionamenti per non creare dipendenze strategiche dall’estero?

La sfida dei conservatori in Europa sarà tentare di riportare razionalità ed equilibrio nel dibattito sul Green Deal, affinché la riduzione delle emissioni possa procedere di pari passo con il sano sviluppo delle nostre società.

Il nostro futuro dipende dalla risposta a questa domanda: riuscirà l’Europa a raggiungere i suoi obiettivi senza compromettere la sua indipendenza, sovranità e libertà?

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