Oggi poniamo ai lettori un interrogativo molto semplice. Chiediamo e ci chiediamo quali siano state le ragioni che verso metà febbraio avrebbero portato alla nascita del governo Draghi dopo la crisi aperta formalmente da Matteo Renzi, crisi che – come è noto – avrebbe poi portato alla destituzione di Giuseppe Conte. Proviamo a fornire qualche risposta, una principalmente, precisando fin da subito che qui nessuno ha la sfera di cristallo per indovinare a menadito i motivi per cui oggi a Palazzo Chigi ci ritroviamo l’attuale Presidente del Consiglio. Che detta così potrebbe sembrare una sciagura – ed in parte lo è –. Sta di fatto che il quadro attuale è poco confortante e i segnali che arrivano dal mondo economico sono allarmanti: da Confesercenti a Confcommercio, passando per tutte le varie associazioni di settore, si ravvisa una situazione a dir poco tragica, con ingenti perdite di fatturato per industrie ed imprese.
Stando così le cose, una delle principali ragioni per cui oggi Draghi è Presidente del Consiglio poteva e doveva essere trovata nel campo economico: è stato scelto un tecnico per poter risanare il Paese, fermo restando che di tecnici l’Italia già ne aveva fatta esperienza in passato. Se dunque il motivo è stato di tipo economico, non si capisce bene perché i primi interventi dell’attuale esecutivo siano andati in una direzione diametralmente opposta a quella sperata: pensiamo ad esempio all’aumento di 107 euro per i dipendenti pubblici, tanto per dirne una. Non sarebbe stato meglio ristorare davvero i lavoratori autonomi anziché garantire ulteriormente chi garantito lo è già?
Anche qui non è chiara la ratio (ammesso che ci sia) della misura in questione.
Veniamo al mondo del lavoro. Prima della sua nomina a presidente del Consiglio, Mario Draghi ebbe a manifestare più volte il suo dissenso nei confronti di misure di tipo assistenzialistico, ponendo l’accento sul ruolo dello Stato quale fautore della creazione di nuovi posti di lavoro, incentivando magari con sgravi fiscali le imprese che avrebbero assunto nuovo personale. Stiamo parlando dello stesso Mario Draghi che chiese in più occasioni lavoro e non bonus. E adesso invece che fa? Si piega – anzi, si è già di fatto piegato – alle richieste dei pentastellati e proroga la misura del reddito di cittadinanza. Che, a ben vedere, di cittadinanza ha solo il nome, visto che per il Movimento 5 Stelle uno vale uno e la meritocrazia va a farsi benedire.
Ecco, non crediamo – ma si tratta del nostro punto di vista – che agire in questo modo sia non solo credibile, ma soprattutto produttivo ed utile per un Paese allo stremo. Una volta che la pandemia sarà andata diminuendo, quali saranno le misure per risollevare il comparto economico? Quali saranno gli aiuti per imprese e fabbriche? Anche qui, buio pesto. Non basta di certo metter su un Dl Sostegni un po’ raffazzonato e dichiarare che si è fatto tantissimo per i settori in sofferenza; agire così ricorda molto il ministro Di Maio quando, preso dall’enfasi del varo del già menzionato reddito di cittadinanza, arrivò a sostenere di aver abolito la povertà grazie al “lavoro” dei suoi.
E’ così difficile chiamare le cose con il proprio nome e dire a chiare lettere che i soldi previsti per i ristori sono pochi e coprono in minima parte chi si trova in uno stato di crisi profonda? E poi scusate: ristori. Che termine inopportuno. Assomiglia a qualcosa che si elemosina con il cappello in mano e che viene concesso per grazia dall’alto.
Se le cose stanno così, se cioè Draghi e i suoi optano per l’assistenzialismo e le mancette una tantum, stiamo messi male. Serve una politica economica ed industriale di ampio respiro. Chi può metterla in campo c’è già: forza!