Medio Oriente: finché c’è Hamas, la pace sarà sempre in bilico

L’accordo tra Israele e Hamas ha aperto una nuova e inaspettata fase di tregua. Era difficile sostenere ancora un conflitto che sembrava inasprirsi ogni giorno che passava, senza sapere quale sarebbe stato il suo esito finale. Per questo, da tutte le parti, si sono affrettati a sperare che tale patto fosse il preludio di una pace duratura che i civili più di tutti meriterebbero. Per il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il pensiero va “alla popolazione civile di Gaza – prevalentemente donne e bambini – provata da mesi di indicibili sofferenze ed ai cittadini israeliani ancora tenuti in una atroce prigionia nonché all’angoscia delle loro famiglie”, augurandosi che “l’impegno della Comunità internazionale” possa “garantire la progressiva e piena applicazione della tregua, creando le condizioni per porre definitivamente fine alla spirale di violenza ed avviando al tempo stesso un percorso politico che porti ad una pace duratura”. Simile il contenuto del messaggio del presidente del Senato, Ignazio La Russa: l’auspicio è che “sia solo l’inizio di un percorso che possa portare a una pace duratura e all’unica soluzione possibile per quell’area così complicata: due Stati e due popoli. La comunità internazionale non lesini sforzi”.I concetti sono chiari, dunque: pace duratura, impegno della comunità internazionale, dialogo tra le parti, rispetto delle rispettive istanze e dei diritti umanitari, soluzione due Stati e due popoli. L’accordo ha così aperto uno spiraglio, in concomitanza con l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca: indipendentemente da chi, tra il tycoon e il presidente uscente Joe Biden, voglia accaparrarsi il merito della vicenda, è indubbio che la ritrovata stabilità, la rinnovata forza dell’Occidente con l’elezione di Trump abbiano influito non poco sulla percezione di chi ora si ritrova a contrattare. E così, con il cessate il fuoco, l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani, ritorna a poco a poco la normalità.Ma come per tutte le cose più belle, bisogna obiettare che restano a galla problemi atavici. Uno su tutti, la presenza di Hamas, che è essa stessa una delle precondizioni che ha fatto esplodere di nuovo il conflitto, il 7 ottobre di due anni fa. L’odio anti-Israele, fondamentale componente dei terroristi palestinesi, continua a esistere e a resistere, se non a espandersi, e continua soprattutto a mettere alla corde tutta la comunità internazionale. Le scene andate in onda in mondovisione, quelle per la liberazione dei primi tre ostaggi, non sono state un bello spettacolo. La consegna si è fatta attendere, senza fonti certe che i tre liberati fossero vivi o morti, lasciando poi la macchina della Croce Rossa tra la folla inferocita. Una sorta di dimostrazione di forza. Alla fine, ai 33 ostaggi israeliani corrisponderanno oltre mille palestinesi imprigionati e condannati (molti anche ergastolani) che saranno riconsegnati ad Hamas, con un arretramento territoriale di Israele da alcune zone conquistate negli ultimi mesi. Una sproporzione immensa, soprattutto se si considera che i terroristi, una volta rilasciati, torneranno ad essere tali e a unirsi di nuovo al conflitto, quando riprenderà.Il problema dunque è uno solo: Hamas. Un problema enorme in primis per la popolazione civile palestinese, soggiogata da uno dei peggiori fondamentalismi. Un problema per Israele, perché resta forte quel sentimento di odio antisemita che vorrebbe la distruzione totale dello Stato ebraico. Un problema per la comunità internazionale, dato che con meschina maestria i terroristi sanno quando utilizzare il popolo palestinese per sensibilizzare l’opinione pubblica. La soluzione dei due popoli e due Stati è forse realmente la migliore. Due popoli diversi, con cultura, storia e identità diverse, che meritano di dividersi delle fette di mondo. Ma finché ci sarà Hamas, un’organizzazione terroristica che mina alla sicurezza prima di tutto del suo popolo, la strada da percorrere sarà ancora lunga.

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