Basta col sterile assistenzialismo. Dopo circa quattro anni, il Reddito di Cittadinanza ha trovato la parola fine. La volontà del governo è stata sempre chiara, fin da subito: bisogna distinguere chi può lavorare da chi non può farlo. È soprattutto questo il motivo che ha spinto all’eliminazione della nota misura ancora rivendicata dai grillini che, nei fatti, non ha conseguito l’obiettivo che, nelle parole, si erano prefissati i suoi creatori: offrire assistenza nel periodo di ricerca di un impiego. Nella realtà, il Reddito di Cittadinanza ha assunto le sembianze di una paghetta di Stato che non ha aiutato l’occupazione, lasciando i percettori soggiogati a un assegno mensile calato dall’alto. Per non parlare poi dei cosiddetti furbetti, che hanno presentato richieste false o taroccate per avere accesso al Reddito.
Le cose sono cambiate. L’Assegno di inclusione è nato sotto i migliori auspici, con un boom di domande ricevute già nelle primissime ore e che, dopo dieci giorni, hanno raggiunto quota 350.000 famiglie. Gli aventi diritti della nuova misura, che prevede 500 euro mensili più eventuali maggiorazioni, dovranno avere un Isee basso, ma riceveranno la quota solo se appartengono – o nel loro nucleo familiare risiede una persona appartenente – a una categoria fragile: minori, persone con più di 60 anni, disabili, persone svantaggiate. La misura dunque prevede un aiuto per chi non può lavorare, ma ora si è scelto di allargare i numeri di fruitori, inserendo anche le vittime di violenza sulle donne: il fine è quello di facilitare il loro reinserimento nel mondo del lavoro.
Numericamente parlando, le famiglie che percepivano il Rdc e ora aventi diritto all’Adi sono circa 750.000, a cui però vanno sommate altre 120.000 famiglie che rientrano nei parametri della nuova misura ma che precedentemente non avevano diritto al sussidio. Ma, nonostante ciò, 400.000 persone hanno deciso di non rinnovare la richiesta per l’accesso all’assegno. Oltre a chi può lavorare e a chi ha trovato nel frattempo un lavoro, a fare marcia indietro sono stati proprio i furbetti, scoraggiati dalla clausola del decreto Lavoro secondo la quale chi presenta dichiarazioni incomplete o false per ottenere il sussidio rischia da due a sei anni di reclusione. Si tratta, insomma, di un epocale cambio di rotta rispetto ai favori fatti a furbetti e delinquenti dal “partito dell’onestà”. Altre buone notizie, infine, giungono dai dati sull’occupazione, che sanciscono la buona riuscita di questa bramata riforma: gli occupati sono saliti sia nel corso del 2023 mese per mese sia rispetto al 2022, con una aumento di circa 500.000 unità; crescono anche coloro in cerca di impiego e calano gli inattivi, che non lavorano e non cercano un’occupazione.
Tutti i dati, in pratica, confermano il buon andamento di una misura che, rendendo giustizia per chi non può lavorare, ha dato nuova linfa al mercato del lavoro e ha messo un categorico stop all’assistenzialismo senza fini e alle tristi pratiche di furbetti che si arricchivano alle spalle dello Stato e dei contribuenti.