Meno tasse e più comunità: la terza via dei conservatori sul fisco.

Gli italiani non vogliono più Stato, come scrivono a sinistra: vogliono più comunità. E per una comunità coesa un certo livello di redistribuzione della ricchezza è fondamentale.

Nella prefazione a La società libera, il grande economista e filosofo Friederich von Hayek spiegava perché egli amava definirsi un liberale e non un conservatore. Tra le tante ragioni addotte, Hayek aggiungeva l’eccessiva fiducia  dei conservatori nei confronti dello stato e in modo particolare, nell’uso dello strumento fiscale, secondo lui non molto diverso da quello dei socialisti.

Erano parole degli anni Sessanta: all’epoca effettivamente le politiche fiscali dei conservatori europei non erano dissimili da quelle delle sinistre e ci volle la rivoluzione thatcheriana e soprattutto reaganiana per fare del conservatorismo quasi un sinonimo del no (more ) taxes

Di fronte alle follie fiscali di un Letta in Italia o di un Biden in Us, verrebbe voglia di proclamarsi ad eterno seguaci di Maggie e di Ron, se non fosse che da quell’epoca sono passati decenni. Ma non solo quelli. C’è da chiedersi se le politiche di tagli fiscali dei due grandi leader fossero poi in linea con la storia del conservatorismo britannico o statunitense o non ne fossero piuttosto una deviazione. E il dibattito è aperto tra gli studiosi.

Un dibattito non solo accademico. Anzi dotato di precise ricadute politiche. È palese infatti che un conservatore debba essere ostile a carichi fiscali troppo gravosi: per ragioni economiche, certo, ma soprattutto per ragioni di tenuta della comunità politica. L’imposizione fiscale finisce infatti per rafforzare la burocrazia statale che tende a soffocare la comunità e crea un ceto di sovvenzionati nullafacenti, dipendenti dai burocrati a capo della leva della spesa: una sorta di moderno schiavismo, come ebbe a scrivere all’inizio del Novecento il grande teorico conservatore inglese Hilaire Belloc.

Quindi i conservatori sono di principio ostili ai carichi fiscali eccessivi e pretendono che le tasse si diminuiscano e non si aumentino. Ma non dovrebbero sposare la visione individualistica dei liberali e dei libertari. Per il conservatore la ricchezza, una volta creata, grazie alla diminuzione delle tasse sulla impresa, deve in qualche modo essere anche messa in circolo, se non distribuita, come scriveva Belloc.

Sappiamo bene che nel paese dal fisco pesantissimo e dai servizi scadenti bisognerebbe solo lottare per abbassare le tasse. E infatti cosi il centro destra deve muoversi. Ma facendo ben attenzione a non ricalcare vecchie parole d’ordine: soprattutto dopo la pandemia, gli italiani sono più sensibili alle diseguaglianze, sanno che i tagli alla spesa hanno incrinato i servizi sanitari. Gli italiani non vogliono più Stato, come scrivono a sinistra: vogliono più comunità. E per una comunità coesa un certo livello di redistribuzione della ricchezza è fondamentale. È necessaria quindi una via intermedia tra le “tasse sono bellissime”, parola d’ordine dei socialisti e degli euro tecnocrati, e le “tasse sono un furto”, che aleggia in certa retorica liberale e libertaria. Solo i conservatori possono rappresentare questa via.

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Marco Gervasoni
Marco Gervasoni
Marco Gervasoni (Milano, 1968) è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise, editorialista de “Il Giornale”, membro del Comitato scientifico della Fondazione Fare Futuro. Autore di numerose monografie, ha da ultimo curato l’Edizione italiana delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia di Edmund Burke (Giubilei Regnani) e lavora a un libro sul conservatorismo.

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