L’ultima sentenza della Corte di Cassazione che rimette ordine al caos provocato dalle toghe rosse sancendo che è il governo a decidere sui Paesi sicuri, non si tratterebbe, secondo la politica progressista, di una vittoria per il centrodestra. Sarebbe soltanto un semplice rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che tra alcune settimane sarà chiamata a esporsi sul tema dopo la richiesta di diversi giudici nostrani circa un presunto conflitto tra normativa nazionale e normativa comunitaria.
In realtà la sentenza non solo mette in fila, una dopo l’altra, diverse buone notizie per il governo a favore della sua lotta agli ingressi irregolari. Ma, pur non pronunciandosi definitivamente in attesa – com’è giusto che sia – della conclusiva sentenza dei magistrati in Lussemburgo, la Suprema Corte ha anche anticipato in qualche modo quella che sarà la decisione dei giudici europei, esponendosi in un modo tale da far cadere anche il minimo sospetto che la Corte di Giustizia possa emettere una sentenza contraria alla sua interpretazione.
I concetti fondamentali della sentenza
Sono importantissimi, cruciali, alcuni concetti esposti espressi dalla sentenza che ha chiuso con il botto un anno fallimentare per i buonisti no-border. In primo luogo, come detto, è stato messo per iscritto, nero su bianco, che è il governo ad avere la competenza di decidere quali sono i Paesi sicuri, quali insomma sono i Paesi in cui è possibile rimpatriare gli immigrati clandestini secondo le procedure accelerate. È compito del governo, e non dei giudici, a cui resta soltanto la possibilità di valutare se nel singolo caso il migrante correrebbe un oggettivo pericolo personale nell’essere rimpatriato. Tutto era nato, in effetti, da una sentenza proprio della Corte di Giustizia dell’Unione europea, datata 4 ottobre, che poco aveva a che fare con la questione dei Paesi sicuri ma che creò un precedente, il principio della territorialità: un Paese può essere ritenuto sicuro se il suo intero territorio è considerato tale. E le toghe rosse avevano colto la palla in balzo in modo molto schietto, allargando il principio di territorialità a quello delle categorie di persone: un Paese diventava di sana pianta insicuro anche se alcune sue minoranze non erano rispettate e i singoli migranti, pur non appartenendo a quelle minoranze, non potevano essere rimpatriati. Si capisce che la deriva sarebbe stata semplicemente una: nessun rimpatrio sarebbe stato più possibile. Ma la Cassazione ha confermato che vale il principio della territorialità, e non quello delle categorie di persone.
Ma c’è dell’altro. Perché, pur nell’attesa della decisione finale della Corte di Giustizia, i giudici romani hanno sostanzialmente messo la parola fine alla diatriba giuridica, sancendo che un Paese può essere ritenuto sicuro anche se ci sono minoranze non rispettate. Questo perché “la designazione del Paese sicuro risponde a un criterio di prevalenza, non di assolutezza delle condizioni di sicurezza, a condizione, tuttavia, che la presenza di eccezioni soggettive tanto estese nel numero, accompagnata da persecuzioni e menomazioni generalizzate ed endemiche, non incida complessivamente sulla tenuta dello Stato di diritto”. Semplice e chiaro: è il governo che decide al di là di singole eccezioni, da valutare comunque secondo le direttive della politica. E il fatto che la Cassazione si sia esposta in modo così chiaro sul tema, lascia intendere che la Corte di Giustizia dell’Unione europea dirà la sua proprio su questa scia. Ecco perché la sinistra, che probabilmente non ha ancora compreso a pieno la decisione della Suprema Corte, farebbe meglio a cambiare strategia comunicativa.