Al centro del dibattito politico ormai da giorni, l’accordo con l’Albania è stato bloccato da una decisione del tribunale di Roma che Giorgia Meloni ha reputato “pregiudiziale”: “È molto difficile lavorare e cercare di dare risposte a questa nazione quando si ha anche l’opposizione di parte delle istituzioni che dovrebbero aiutare a dare risposte” commentò a caldo dal Libano, dove si trovata circa una settimana fa. Così l’accordo con l‘Albania, mentre è ammirato da mezza Europa, dagli Stati membri e dai vertici comunitari (von der Leyen e Metsola), rimane in stallo in Italia a causa di una sentenza, quella del tribunale di Roma, che a sua volta si appella a una sentenza della Corte di Giustizia europea di pochi giorni prima. In pratica, Roma sostiene che la lista dei Paesi sicuri stilata dal governo possa essere evitata dai giudici se ci sono alcune categorie di persone, anche minime, che subiscono alcune violazioni. Ma in Lussemburgo non sono d’accordo e anzi dicono tutt’altro: perché se in realtà si fa riferimento al rispetto dei diritti umani, il criterio principale per considerare un Paese “sicuro” è quello geografico, ovvero un Paese è insicuro se una delle sue parti è insicura.
Il criterio territoriale
Lo ha spiegato bene al Giornale Lucia Serena Rossi, fino a poco fa giudice italiano alla Corte di Giustizia europea: in sintesi, la sentenza della Corte europea “in realtà si limita a ribadire che è competenza degli Stati fissare la lista dei Paesi sicuri, aggiungendo che occorre prendere in considerazione tutto il territorio di tali Paesi senza poter escludere zone specifiche e che la lista deve essere riesaminata periodicamente per accertarsi che quei Paesi continuino ad essere sicuri”. Si può dunque sostenere, paradossalmente ma non troppo, che sia stata data vera applicazione alla sentenza europea non dal tribunale di Roma, ma dal governo italiano: se infatti i giudici romani hanno di fatto evitato il criterio geografico, dichiarando insicuri Bangladesh e Egitto (i Paesi di provenienza dei 16 migranti diretti in Albania) non per loro differenze territoriali interne, il Governo ha recepito la sentenza togliendo dalla lista dei Paesi sicuri Camerun, Colombia e Nigeria, che appunto non rispettavano i requisiti territoriali.
Una semplice incomprensione?
A dire il vero, la sentenza non teneva conto neppure direttamente della lista dei Paesi sicuri dei singoli Stati, ma nasceva in realtà dai quesiti posti da un giudice della Repubblica Ceca su un caso di rimpatri verso la Moldavia: questa, secondo la Corte, non può essere dichiarata sicura per colpa di alcune sue zone, in particolare la Transinistria, fuori dal controllo moldavo. La sentenza del tribunale di Roma, insomma, è del tutto lontana da quello che è stato deciso dalla Corte di Lussemburgo: il paradosso è che nessun governo, per la magistratura italiana, sarebbe stato più titolare della facoltà di stilare la propria lista dei Paesi sicuri. Secondo Rossi, “sembra che in Italia questa sentenza non l’abbia capita nessuno”. Ma in realtà, fin dai primi momenti, Sara Kelany, deputato di Fratelli d’Italia e responsabile del dipartimento Immigrazione del partito, aveva denunciato che il tribunale di Roma aveva di fatto omesso che il provvedimento della Corte europea non era altro che “un pronunciamento che riguarda Repubblica Ceca e Moldova che non introduce alcuna eclatante novità in materia di applicazione della direttiva da parte dell’Italia”. E, d’altronde, sembra difficile pensare che a Roma la sentenza non sia stata capita. I fatti lasciano pensare che, più di un’incomprensione, sia stato allargato il significato della sentenza oltre il criterio geografico, che resta l’unico da prendere in considerazione.
I giudici di Roma hanno fatto soltanto perdere tempo alla fine si farà quanto stabilito dal governo!