Migranti omosessuali e attivisti per il clima: così il tribunale motiva lo stop ai rimpatri

Sono perlopiù cavilli, escamotage tecnici quelli che hanno portato il tribunale di Roma a sancire il ritorno in Italia dei 12 migranti giunti nei centri per i rimpatri costruiti in Albania. Là dove possono accedere, secondo l’accordo siglato tra Roma e Tirana e secondo la legislazione italiana, soltanto i migranti irregolari maschi che arrivano dai Paesi definiti sicuri, Paesi inseriti nella lista che ogni anno il governo stila e aggiorna per il rimpatrio di chi non ha diritto di accedere sul suolo italiano. Nel definire un Paese sicuro, vengono presi in considerazione alcuni fattori sostanziali, come l’adeguamento del Paese in questione al diritto umanitario, ai principi cardine dell’uomo e del cittadino, al rispetto quanto più sentito della democrazia e delle istituzioni democratiche, secondo insomma un riconoscimento internazionale generale di lontananza dagli esempi meno virtuosi di libertà. Ma la sentenza del tribunale di Roma di venerdì ha di fatto ribaltato la situazione: non è più il governo democraticamente eletto dai cittadini a decidere se un Paese è sicuro o meno a seconda di criteri oggettivi, ma sono i giudici a farlo. E ben venga, se questi lo facessero in virtù degli stessi criteri oggettivi: la sentenza di Roma ha aperto una frattura evidente tra ciò che i giudici dovrebbero fare e ciò che diversi giudici in realtà fanno, a seconda di personali orientamenti, alla ricerca appunto di quegli escamotage il cui utilizzo è da lodare nel bravo avvocato e non certo in un giudice.

No-border, woke e green

Secondo il tribunale di Roma, infatti, i dodici migranti spediti in Albania in attesa del rimpatrio devono tornare in Italia perché nei rispettivi Paesi, il Bangladesh e l’Egitto, non si tengono contro dei diritti degli omosessuali, ma anche perché alcuni di questi sono ritenuti “sfollati climatici”. In pratica, per il giudice Albano i dodici migranti scappavano dalle condizioni climatiche del loro Paese e per la persecuzione dei loro rapporti omosessuali. Ne deriva, insomma, che i dodici sono tutti attivisti Lbgt o contro il cambiamento climatico. E sarebbe giusto tutelare le esigenze dei singoli migranti, se questo fossero vero, se la sentenza del tribunale di Roma giungesse dopo un esame approfondito delle necessità di ognuna delle 12 persone in questione. È, insomma, la follia no-border che va a unirsi con quelle woke e green, in un miscuglio esplosivo e potenzialmente catastrofico. La sentenza, del resto, segue quello che già era accaduto con una sentenza simile del tribunale di Palermo, secondo la quale cinque migranti tunisini non potevano sostare nel centro per i rimpatri perché il loro Paese di origine, la Tunisia appunto, sanziona i rapporti sessuali tra omosessuali consenzienti. Quanto basta per reputare anche la democratica Tunisia un Paese non sicuro. D’altronde, anche l’Egitto è stato dichiarato un Paese non sicuro, malgrado migliaia di italiani si rechino lì tutto l’anno per le meritate vacanze.

Risulta difficile pensare che i cinque migranti tunisini e i dodici migranti bengalesi ed egiziani fossero tutti omosessuali o attivisti climatici. Ma se anche fossero vero, risulta difficile che nel giro di quarantotto ore, il tribunale di Roma abbia approfondito la vita dei singoli clandestini che si trovavano in mezzo al Mediterraneo e conosciuto le loro tendenze personali. Per ovviare a quelle che sembrano decisioni arbitrarie, che aprono a un pericolosissimo precedente – quello, cioè, per il quale ogni giudice può bloccare a suo piacimento il rimpatrio del migrante – è già pronto il documento che approderà in Consiglio dei Ministri, prontamente fissato da Giorgia Meloni nelle scorse ore e che si riunirà oggi alle 18: lo scopo è quello di elevare a norma primaria l’elenco dei Paesi sicuri, in modo tale da evitare l’arbitrarietà dei giudizi di certi magistrati schierati.

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